Vivian Maier, la tata col dono della fotografia

Vivian Maier spiava la vita, nascosta dietro a una Rolleiflex. Lo faceva soprattutto nel tempo libero, quando non era impegnata nel suo mestiere di “tata” per le famiglie dell’alta borghesia di Chicago. Un impiego che le permetteva di avere un tetto sulla testa, godendo al tempo stesso della libertà necessaria a osservare il mondo e catturarlo attraverso il mirino della sua macchina fotografica. Quel che si sa di lei si deve soprattutto al destino. E a colui che, un giorno, si imbatte per caso in uno scatolone pieno di vecchie pellicole.
Nel 2007 John Maloof sta scrivendo un libro su Chicago ma non ha a disposizione un apparato iconografico, così tenta la sorte acquistando all’asta, per 380 dollari, una grande scatola contenente negativi che risalgono agli anni Cinquanta. Niente che vada bene per il suo libro, ma non ci vuole molto per accorgersi di essere entrato in possesso di un materiale dalle potenzialità esplosive. Acquisisce alcune delle immagini con lo scanner e, invece di arrendersi di fronte al rifiuto di un paio di galleristi non interessati a esporle, decide di postarle su un blog. La reazione del potenziale pubblico è immediata. Di colpo ci troviamo davanti a una delle collezioni più importanti di “street photography” del XX secolo.
Istantanee incredibili, intense e vibranti che raccontano tutte le contraddizioni della società americana del tempo e che nulla hanno da invidiare agli scatti di Weegee, Robert Frank o Diane Arbus: bambini, signore dell’alta borghesia avvolte in stole di pelliccia, pagliacci tristi, coppie di innamorati, ubriaconi distesi per la strada. I contrasti della vita, la morte, la tenerezza, la disperazione. L’America.
Con gran fiuto Maloof si mette sulle tracce di una fotografa sconosciuta di cui su google non c’è traccia fino a un giorno del 2009, quando un necrologio ne annuncia la scomparsa. Un indirizzo, qualche ricerca, l’acquisto di altri scatoloni in circolazione e un ragazzo occhialuto poco più che ventenne si ritrova tra le mani qualcosa come centomila negativi, settecento rullini mai sviluppati, un mare di ogni cosa si possa compulsivamente raccogliere nell’arco di una vita e un mistero da risolvere: chi era Vivian Maier? Quelli che una volta erano i “suoi” bambini, oggi sono adulti che hanno contribuito a far luce sul passato di una donna “eccentrica, maniacalmente riservata e non priva di un lato oscuro”.
Altissima, robusta e poco incline al sorriso, la si scorge in molti dei suoi scatti, precursori nobili dei “selfie”, rubati al riflesso di vetrine, specchi e finestre. Niente figli né relazioni, un curioso accento francese, qualche viaggio e l’uso di nomi differenti, adottati per mania di riserbo o magari celando il desiderio di una vita diversa. Ma soprattutto un talento innato che le faceva cogliere quello che Cartier-Bresson definiva “il momento decisivo”, quell’istante irripetibile in cui tutti gli elementi sono in armonia. Talento di cui nessuno, neppure nelle famiglie da cui lavorava a servizio, era mai stato a conoscenza.
Il percorso che porta a svelare il passato di Vivian Maier è documentato in un film. Lo stesso Maloof, assieme a Charlie Siskel, ha messo insieme i pezzi di una storia affascinante che restituisce la conoscenza di una delle più grandi fotografe del secolo scorso. E dopo essere stato a Toronto e a Berlino, “Finding Vivian Maier” arriva in sala giovedì 17 a Roma, Milano, Firenze e anche a Trieste, dove resterà in programmazione al Cinema dei Fabbri.
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