A Illegio tra miti e religioni sessanta opere raccontano l’amore di “Padri e Figli”

la mostra
Lo sguardo perso, disperato, di Ivan il Terribile che veglia la salma del figlio da lui stesso ucciso al termine di una furibonda lite, stringendo un lembo della sua veste come non volesse mai vederlo andare via, nel dipinto di Vyacheslav Grigorievich Schvarts (1864, olio su tela). Un altro sguardo, quello indomito e altero del Conte Ugolino attorniato dai figli agonizzanti chiusi con lui nella torre a morire di fame, nel quadro di Giuseppe Diotti (1831). Poi l’abbraccio disperato del pescatore che cerca di strappare alle onde il corpo del figlio annegato nel naufragio della loro barca, in “Adieu” di Alfred Guillou.
E ancora padri e figli della tradizione biblica e della mitologia, da Dedalo e Icaro a Noè, da Lot e le sue figlie al sacrificio di Isacco, da Priamo e Ettore a Ulisse e Telemaco.
Padri e figli, padri che hanno cura dei figli, figli che hanno cura dei padri, rapporti drammatici tra padri e figli, figli perduti e figli ritrovati. Sono le opere, i temi e i percorsi della straordinaria mostra “Padri e figli” (aperta fino al 7 ottobre, da martedì a sabato 10–19, domenica 9-20, tel. 043344445) allestita nella Casa delle Esposizioni di Illegio, minuscolo borgo a due passi da Tolmezzo. In rassegna sessanta opere fra dipinti e sculture, tra grandi capolavori e firme importanti, per indagare - secondo le parole del curatore, don Alessio Geretti - la rappresentazione della paternità: quella riuscita o quella imperfetta e assente, la paternità umana e divina, la sua essenza, la sua crisi e la sua riscoperta.
È dal 2004 che il Comitato di San Floriano, associazione culturale che si rifà ai dettami del Concilio Vaticano II, organizza a Illegio mostre internazionali tematiche ispirate ai motivi della Chiesa: “Aldilà” nel 2011, “L’ultima creatura” sull’idea divina del femminile nel 2015, “Oltre - In viaggio con cercatori, fuggitivi, pellegrini” nel 2016 solo per citarne alcune.
Il tema di quest’anno è appunto “Padri e figli”, ed è, per dirla sempre con i curatori, «un’indagine sull’iconografia del legame più decisivo tra quelli che l’essere umano sperimenta nella sua vita, presentato da figure della mitologia e della letteratura di tutti i tempi, e che sta al centro della rivelazione biblica». È chiaro che l’impianto di base della mostra riconduce nella sua essenza da una parte a un’idea metafisica della paternità (il Dio Padre), dall’altra a una concezione terrena di paternità come «cammino che conduce oltre la natura», di marca decisamente non freudiana e di conseguenza morale: l’inettitudine oggi diffusa - dicono i curatori - a diventare padri deriva dal fatto che non abbiamo «più il coraggio di confessarci figli», il che porta alla «rimozione della paternità radicale».
La discussione è aperta, tuttavia il piano scientifico dell’esposizione consente anche al visitatore più agnostico e laico un viaggio ad alto tasso emozionale, un po’ per l’intrinseca, altissima qualità delle opere esposte, un po’ per la scelta di mettere insieme più opere intorno a uno stesso soggetto: solo per l’implorazione di Priamo ai piedi di Achille ci sono quattro dipinti, da Jérôme-Martin Langlois a Eugène Carrière da Aleksandr Andreevi› Ivanov a Jospeh Wencker. Così come, nella sezione “Padri che hanno cura dei figli” tre dipinti (di Antonio Carracci, Orazio Riminaldi e Andrea Sacchi) rappresentano Dedalo e Icaro.
Il che permette una riflessione più ampia e approfondita sui soggetti della rappresentazione: un padre che si prostra davanti al nemico spietato per avere indietro le spoglie del figlio rinvia a un variegato universo di simbolismi inevitabilmente destinati a colpire la sensibilità del visitatore.
Nel “Compianto sul corpo di Abele” di Giovan Battista Caracciolo (1625-1627), per fare un altro esempio, il dramma e l’impotenza dei genitori di fronte al fratricidio risuona come una nota cupa e senza tempo, così come nella biblica “Ebbrezza di Noè” (due oli su tela, di Antonio Molinari e Jacopo Chimenti) si ravvisa un’offesa della paternità che anticipa e forse prepara quella perdita del padre intorno al quale ruota l’idea portante della mostra.
La mostra di Illegio, dunque, fonda le sue ragioni sull’opinione in effetti diffusa e condivisa di come, a partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, tutto il mondo occidentale sia alle prese con un sostanziale smarrimento della prospettiva della paternità. Senza scomodare sociologi e psicanalisti, sempre più attenti alla materia, è un fatto che la crisi della funzione paterna, o almeno la necessità di una sua urgente ridefinizione, pervadono l’esistenza di ciascuno.
La forza della rassegna è che con le opere esposte suggerisce - al di là delle simbologie, delle rappresentazioni e delle speculazioni morali - come il legame tra padri e figli non sia altro che un’inesausta interrogazione, fra le tante possibili, sul senso del nostro stare nel mondo.
Perché quello tra padri e figli è, come tutti i veri amori, un amore imperfetto, e perciò alimenta un reciproco specchiarsi senza fine e senza soluzione. —
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