“A la riversa”, un vocabolario per parlare in triestino senza farsi capire (o quasi)

Un domo per non sifar recapi. Attenzione, non è un errore di stampa, avete letto giusto. Solo che è scritto alla versari, alla riversa, detta in triestino, all’incontrario parlando per lianta. In...

Un domo per non sifar recapi. Attenzione, non è un errore di stampa, avete letto giusto. Solo che è scritto alla versari, alla riversa, detta in triestino, all’incontrario parlando per lianta. In talian, insomma in lingua. Un modo per non farsi capire, quello di invertire le sillabe delle parole, parlando a rovescio e rendendole incomprensibili all’ignaro ascoltatore, che i linguisti chiamano metatesi. Di questi linguaggi criptici se ne conoscono diversi, pensiamo alla parlesia dei commercianti napoletani di fine ottocento, al verlan dei criminali di Parigi, ma quello che forse non è oggi molto noto è che i lavoratori del porto di Trieste hanno usato per anni una lingua segreta basata sull’inversione delle sillabe.

Nato sulle banchine del porto quando i traffici erano al top e le gru caricavano e scaricavano merci con la nervosa intensità che le foto dell’epoca, si parla degli anni Trenta, e poi del primo dopoguerra, gli anni dell’amministrazione alleata, rimandano in un bianco e nero che brulica di vita, quel gergo è diventato per i portuali anche segno distintivo, orgoglio di classe. Un periodo lontano e tramontato, quando Trieste, per dirla con le parole del poeta Claudio Grisancich, “iera sparviera, vanto e trionfo / incornisava el fondo de Cavana / anca i bigonci dei strazzarioi / lusiva de zucaro e bubana”. Di quella floridezza il porto era uno dei polmoni, i portuali lo sapevano e ne menavano vanto. Del loro gergo, scomparsi quei personaggi picareschi raccontati in ‘Animo portualini belli’ qualche anno fa, rimane poco o nulla. Qualche parola, lanfur, iaspi (ormai avete capito il gioco, no?) galleggia ancora qua e là, come un relitto, nel triestino italianizzato di oggi, ma solo tra chi ha una certa età.

Per rendersi conto della ricchezza del parlar a la versari, si può leggere il vocabolario che Alessandro Ambrosi ha raccolto in ‘A la riversa. O del come parlar triestin per indrio’ (Transalpina, 77 pagg., 10 euro). L’autore, che si firma Drosian Brosiam, perché nella criptolalia anche i nomi si invertono, portuale per un periodo e da anni libraio in proprio alla Transalpina, ha preso per la coda le ultime tracce di quel mondo fatto di lavoro duro, fatica, solidarietà, screzi e beffe, in cui nascevano parole non solo alla riversa. Quello che allontanandosi dice me la mocco ricorda ignaro quel chinfa (facchino) che per arrotondare la paga portava fuori dal porto un po’ di caffè ‘recuperato’ dai sacchi, e facendo scivolare la moka nel mocador, ovvero nel fazzoletto legato sotto la camicia, cercare di svicolare, moccandosela appunto, dai doganieri.

Paolo Marcolin

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