A Padova il Miró ritrovato

Sarebbero potute andare tutte all’asta le 85 opere di Miró che nel 2006 furono acquistate per alimentare i fondi di investimenti del Banco Portugues de Negocios, per 34 milioni di euro, dall'imprenditore e collezionista giapponese Kazumasa Katsuta. Quando nel 2008 la banca fu nazionalizzata, le opere entrarono a far parte dei beni dello Stato del Portogallo che per cercare di ovviare alle forti difficoltà finanziarie, qualche tempo dopo, decise di mettere sul mercato l’intera collezione. Incaricata della vendita fu Christie’s che nel 2014 la mise all’incanto a Londra. Era stata annunciata come “un’asta memorabile”, “una delle offerte più ampie e impressionanti di Miró mai messe su piazza” ma un’improvvisa e imponente protesta popolare ha fatto prima rinviare, quindi annullare la vendita e le opere di Miró sono rimaste allo Stato portoghese. Esposte pubblicamente per la prima volta al Museo Casa de Serralves di Porto tra ottobre 2016 e giugno 2017 in una mostra che ha avuto oltre 240.000 visitatori, sono state ospitate di recente a Palazzo Nazionale di Ajuda a Lisbona. Ora, prima di ritornare stabilmente al museo di Porto, la collezione dello Stato portoghese viene esposta nelle sale di Palazzo Zabarella a Padova nella mostra “Joan Miró: Materialità e Metamorfosi” (aperta fino al 22 luglio).
Si tratta quadri, disegni, sculture, collages e arazzi che coprono ben sessant’anni del lavoro dell’artista catalano mettendo in evidenza l’importanza dei materiali utilizzati sia a livello di supporto sia per ciò che riguarda l’elaborazione delle forme. Per il curatore della mostra Robert Lubar Messeri, tra i massimi esperti dell’opera di Miró, il titolo della rassegna intende infatti suggerire la capacità dell’artista di trasformare non solo la realtà ma anche le stesse idee nel passaggio da un mezzo espressivo all’altro. Lungo il percorso espositivo l’alternarsi di materiali diversi come il succedersi di segni, forme, colori totalmente svincolati da un’intenzione di rappresentazione realistica danno immediatamente un’impressione di grande libertà. A uno sguardo più attento tuttavia, le suggestioni presenti in ciascuna opera risultano molteplici e ricche di richiami sia al loro contesto storico e artistico sia alla poetica propria dell’artista.
Nato a Barcellona nel 1893, Joan Miró iniziò a lavorare come contabile in una drogheria. In seguito a un serio esaurimento nervoso, nel periodo di convalescenza trascorso nella casa di famiglia a Mont-roig del Camp, capì di dover seguire la sua vocazione artistica. Iniziò a frequentare l’Accademia Galí nella sua città natale e poco dopo affittò uno studio entrando in contatto con i maggiori protagonisti del mondo dell’arte della città catalana. Giunto a Parigi nel 1920 conobbe Picasso e gli artisti dadaisti che animavano il circolo Tristan Tzara. Saranno però le idee dei poeti e scrittori surrealisti a influenzarlo maggiormente in particolare quando, a partire dal 1924, volse il suo linguaggio verso un’astrazione fatta di segni, parole, linee, numeri e lettere liberamente in movimento nello spazio, evocando situazioni, pensieri, personaggi diversi.
Proprio del ‘24 è il disegno esposto a Palazzo Zabarella, ispirato a una danzatrice spagnola di cui si intuiscono alcuni particolari come la testa e il suo movimento veloce, leggero. Altrove i segni e i colori si trasformano in forme misteriose se non addirittura minacciose, o in animaletti tanto graziosi quanto improbabili. La figura umana viene deformata, allungata, gonfiata o ristretta in maniera grottesca sia nei disegni realizzati all’Academie de la Grande Chaumière, sia nei suoi ritratti immaginari come “La Fornarina (D’après Raphael)”, pure presente in mostra.
È soprattutto negli anni Trenta che il concetto di metamorfosi inizia a rivestire per l’artista un significato anche politico: i suoi corpi mostruosi, le sue forme colorate miste a catrame, sabbia e pietre su masonite o celotex raccontano di un universo violento e incomprensibile dove la Spagna è dilaniata dalla guerra civile e l’Europa si prepara alla seconda guerra mondiale. In tale orrore tuttavia, Miró è capace di creare pure “Il canto degli uccelli in autunno”, un olio su celotex, in cui si abbandona a un sogno delicato e in un cielo azzurro assolutamente lirici. Nelle opere degli anni Cinquanta e Sessanta i segni, i colori, la materia continuano ad interagire creando nuovi ideogrammi, nuovi cieli pieni di costellazioni dove far volare le sue figure fantastiche, nuove superfici su cui collocare i suoi insoliti personaggi, ironici e tragici al tempo stesso, e i suoi soggetti prediletti: le donne e gli uccelli, in un desiderio di continua rinascita e di ascesa. Agli anni Settanta si riferiscono le sperimentazioni più ardite: le tele bruciate in cui il fuoco è usato come un pennello e gli arazzi, i Sobreteixims, i “sopratessuti”, dove metamorfosi e materialità creano ulteriori, colorate, immaginarie realtà.
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