A Trieste un libro svela gli ultimi mazziniani dell’irredentismo

Nel suo ultimo lavoro Roberto Spazzali ricostruisce l’epopea dei gruppi politici rimasti sospesi tra irredentismo e rivoluzione: le pagine di una biografia corale

Paolo Marcolin
L'associazione mazziniana Edera al Concorso Ginnastico di Venezia (8-12 maggio 1907). Archivio SGT
L'associazione mazziniana Edera al Concorso Ginnastico di Venezia (8-12 maggio 1907). Archivio SGT

TRIESTE Sono stati la parte nascosta dell’irredentismo, quella che non aveva pulsioni nazionaliste e non agitava la bandiera della rivendicazione territoriale. Inquieti e impulsivi, erano ex garibaldini delusi, mazziniani diffidenti, radicali disillusi, rivoluzionari incompiuti.

Si chiamavano Fabio Filzi, Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro, Gabriele Foschiatti, Ercole Miani. Erano legati al retaggio risorgimentale e volevano rinnovare la politica sulla base di un programma che non sfigurerebbe neanche oggi nel campo progressista: tutela della classe operaia, abolizione dei privilegi di classe, uguaglianza di genere, pacificazione dei contrasti nazionali.

Questa parte del movimento irredentista è finita nel dimenticatoio quando, dopo la Prima guerra mondiale, mazziniani e liberalnazionali entrarono in crisi. Loro si affidavano all’Italia appena sbarcata a Trieste, ma il fascismo che di lì a poco giunse al potere impose un cambio di strategia e ai loro ideali mancò il terreno sotto i piedi. Così scomparvero per una sorta di eutanasia politica, come la chiama lo storico Roberto Spazzali nel suo “Gli ultimi del Risorgimento” (Irci, Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata, 614 pagg., 30 euro).

Molti sarebbero riemersi sulla scena politica dopo la caduta del fascismo, come Ercole Miani, che assieme al fratello Michele fu tra gli organizzatori del partito d’Azione a Trieste dopo il 1943. Saggi sull’irredentismo ne sono stati scritti tanti, ma libro di Spazzali, scrive Franco Degrassi, presidente dell’Irci nella prefazione al volume, è una biografia corale di un gruppo di idealisti che sognavano una rivoluzione politica mai compiuta.

Sognatori fuori dal tempo com’erano, quei giuliani non si erano accorti che il Risorgimento era finito a Mentana, un borgo a pochi chilometri da Roma, nel 1867, quando Vittorio Emanuele II fermò un Garibaldi intenzionato a mandare a casa il papa. Uno stop che emarginò per sempre il Peppino in camicia rossa, ma a Trieste si continuò a sognare gli ideali di Garibaldi e Mazzini.

Il loro irredentismo era nella forma e nella sostanza un movimento rivoluzionario. Il primo irredentismo, che si radunava intorno al circolo Garibaldi, aveva sede in un negozio di tessuti vicino al municipio; ne facevano parte garzoni di bottega, tipografi, agenti di commercio e non andavano al di là di qualche atto quasi goliardico.

Gli studenti universitari si raccoglievano invece intorno al Circolo XX dicembre, che contava una ventina di aderenti ed erano più animosi, arrivando a far scoppiare petardi e lanciare volantini al Verdi. Questi mazziniani, garibaldini, democratici, erano tanto imbevuti degli ideali risorgimentali che non esitavano a partire volontari per difendere le altrui libertà, come fece il contingente di triestini e istriani che nel 1897 andò a combattere per la Grecia aggredita dagli Ottomani.

Il secondo irredentismo si aggregò nell’associazione politica Democrazia sociale, di ispirazione mazziniana, fautrice della libertà dei popoli e del riconoscimento della nazione slava. Erano gli anni in cui la scena politica triestina era tenuta da Felice Venezian e dal suo partito liberalnazionale, che vinse le lezioni comunali del 1886 spostando la battaglia politica alla difesa dell’identità italiana di Trieste.

A Venezian spetta il copyright del concetto di municipalismo triestino che sarà ripreso un secolo dopo nelle visioni autonomiste del Melone post Osimo e della Lista per Trieste.

Pochi anni e la Grande Guerra sparigliò le carte anche nel campo irredentista. Nel 1919, quando D’Annunzio si era preso Fiume, la generazione imbevuta di tradizione mazziniana aveva risposto all’appello di Gabriele Foschiatti e Giuseppe Pagano, l’architetto divenuto fascista e poi partigiano che sarebbe morto a Mauthausen, per la costituzione del battaglione volontari della Venezia Giulia.

L’impresa di Fiume ridestava le speranze repubblicane per una rivoluzione sociale, ma finì come si sa e tra quelli che tornarono, molti si schierarono per il rampante nazionalismo che si andava tingendo di orbace e altri, quelli che erano delusi per la piega che aveva preso l’Italia, furono costretti a mettere la sordina ai loro ideali, e su di loro calò il silenzio. —

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