Abate sulle tracce del nonno. E di Marilyn

Oggi lo scrittore che ha vinto il Campiello nel 2012 presenta a Cormonslibri “La felicità dell’attesa”
Di Alessandro Mezzena Lona

Carmine Abate non ha mai pensato di abbandonare Hora. La sua terra promessa di tanti romanzi. Trasfigurazione letteraria del paese natale di Carfizzi, in Calabria, dove ancora vive una comunità arbëreshë. Figlia di albanesi arrivati in Italia attorno al Quindicesimo secolo. Eppure, nel suo nuovo romanzo, “La felicità dell’attesa” pubblicato da Mondadori, non poteva fare a meno di imbarcarsi per un viaggio oltreoceano. Verso l’America di suo nonno emigrante, di suo padre. E di una figura che confina con il mito: Norma Jeane, la splendida, malinconica ragazza che sarebbe diventata Marilyn Monroe a Hollywood.

Della sua bellissimna “Felicità dell’attesa”, che prende a prestito il titolo da una frase di Sant’Agostino, e di altre storie, Carmine Abate parlerà oggi a Cormonslibri. In un incontro che si terrà alle 17 in Sala Italia, in via Friuli 28.

Spiega lo scrittore: «Volevo raccontare la storia di nonno Carmine. E in effetti, come dico all’inizio del libro, è come se la sua ombra fosse venuta a cercarmi per dire: “Hai dedicato decine di storie al nostro paese, hai trasformato tuo padre in una star e invece su di me non hai mai scritto nulla”».

Ma se Carmine Abate non si era mai occupato prima di suo nonno, un motivo c’è: «Non ero mai stato in America. E io non sono capace di scrivere storie ambientate in posti che non conosco. Tra il 2012 e quest’anno, per due volte, mi hanno invitato negli States per due tour letterari organizzati dal professor Michelangelo La Luna della University of Rhode Island. Già dal primo viaggio ho iniziato a raccogliere informazioni sul nonno. E lì mi sono imbattuto nel grande personaggio di Andy Varipapa. Un uomo straordinario».

Ma chi era Andy Varipapa?. «Era partito da Carfizzi nel 1903, aprendo davanti a sé orizzonti inaspettati per un immigrato italiano. Diventato un’autentica stella del gioco del bowling, ha girato qualcosa come 36 film sulla sua attività. Faceva i tour in giro per l’America. È stato uno dei primi professionisti che ha saputo capitalizzare la sua bravura. Se n’era andato dalla Calabria a 12 anni, dopo aver lavorato duramente in campagna. Poi si è trasformato in un vero “mericano”, accettando i lavori più umili, sulle navi, senza mai perdersi d’animo. Ha affrontato la vita di petto, puntando tutto sul suo talento, senza sottrarsi alla fatica. E io sono felice di aver raccontato la sua storia, perché Andy rappresenta l’esempio dell’emigrazione vincente. Non bisogna raccontare solo storie di persone che si piangono addosso».

Nel secondo viaggio americano, Carmine Abate è riuscito a incontrare alcuni parenti di Andy. «Joe Alessio mi ha raccontato, per esempio, il menu dei ristoranti di allora. Suo padre, che arrivava da Carfizzi, aveva aperto il bar ristorante “Family Tavern”. La cosa più bella è che sono riuscito a ricostruire la storia della comunità del mio paese che si è trasferita negli Stati Uniti. Feriti dallo sradicamento dalla propria terra, hanno saputo trovare la ricchezza: non solo economica, ma soprattutto umana e culturale».

L’incontro che regala a “La felicità dell’attesa” un pizzico di magia in più è quello di Jon con una sconosciuta, splendente Norma Jeane. «Questa storia galleggia tra realtà e fantasia. Non posso rivelare fino in fondo dove sta il confine. In ogni caso, mi interessava raccontare il personaggio di Norma, non la sua evoluzione di quell’ancora anonimo splendore nel mito di Marilyn Monroe. Volevo che nel mio romanzo entrasse la ragazza che aveva negli occhi la felicità dell’attesa. Che sognava di diventare un’attrice di successo. Poi, quando a Hollywood tutti hanno cominciato a corteggiarla, a cercarla, i suoi occhi si sono spenti. Nel romanzo, a un certo punto, Norma Jeane e Jon si rivedono: lei è già bionda, corteggiata da tutti e tanto sola».

Dopo “La collina del vento”, che nel 2012 ha portato Abate a conquistare il Premio Campiello a Venezia, “La felicità dell’attesa” è venuto a completare una specie di dittico narrativo. «Se nel primo libro mi è piaciuto raccontare storie di compaesani che hanno deciso di restare a Hora, questa volta ho seguito le tracce di chi invece ha dovuto o voluto andarsene».

E proprio il Campiello è stato una sorta di rito di passaggio importantissimo per Abate. «Mi ha dato la consapevolezza che le storie che stavo scrivendo erano apprezzate non solo dai lettori, ma anche da una giuria di persone competenti. Di critici. A volte capita che un libro vada anche molto bene, venda tanto, ma non sai veramente se chi lo legge con occhio attento, con competenza, lo consideri un bel lavoro. Adesso “La colina del vento” è uscito con successo anche in Giappone, un mondo apparentemente lontanissimo da quello che racconto io. Eppure, credo che se le storie che metti dentro un romanzo sono autentiche, fanno parte di te, non sbagli mai strada. Io parto da un microcosmo, il paese di Hora, dove poi trovo i grandi temi della letteratura: l’amore, il mistero, la morte. E in questo nuovo libro anche la felicità».

Fin dai primi libri, Abate ha sempre scelto di impastare alla lingua italiana le parole della comunità arbëreshë. «Ci sono lettori che usano a casa le parole dei miei libri. E questo mi dà grande gioia, se penso che ho dovuto combattere con gli editori. Convinti che dovessi eliminare quei teremini per rendere le storie più leggibili. Ovviamente, mi sono sempre opposto. Se non ci fossero le frasi in arbëreshë le storie diventerebbero banali, anonime. E poi, diciamo la verità: sarei ingrato nei confronti delle mie origini, rinuncerei alla mia identità plurale, anche se l’italiano resta la lingua della scrittura».

Fin da quando ha cominciato a raccontare le storie degli italiani emigrati in Germania, con “I Germanesi”, e poi “Il ballo tondo”, “La moto di Scanderbeg”, “Tra due mari”, “La festa del ritorno”, Abate ha ribadito la sua convinzione che solo il dialogo aiuta a creare un vero amalgama tra generazioni diverse. Tra etnie diverse. «Non è possibile vivere assieme se non si parla, non ci si capisce. Il dialogo è fondamentale tra giovani e adulti. ma anche tra quelli che vivono in un Paese e chi arriva da lontano. Perchè comunicare senza pregiudizi è l’unico modo per conoscersi davvero».

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