Accardo: «Con Trieste legame fortissimo Cominciò al Teatro Nuovo, 65 anni fa...»

l’intervista
Salvatore Accardo può essere definito un autentico mito del violino. Ritorna a Portopiccolo, a distanza di pochi mesi dalla sua ultima esibizione per la Società dei Concerti. Lo scorso settembre era sul palco con il proprio quartetto.
Alle 19 di oggi, nella piazzetta, suonerà invece con l’Orchestra da Camera Italiana. L’appuntamento, il primo di “Falesie in musica”, rassegna di quattro serate, è anche l’avvio del calendario della Sdc, formato da oltre quaranta appuntamenti. In programma, il “Gran duo concertante per violino, contrabbasso e orchestra” di Bottesini e la “Serenata in do maggiore” di Caikovskij. In caso di maltempo l’evento sarà ospitato dal locale “Pavillion”.
Per coloro che lo desiderano da piazza Oberdan partirà una navetta per raggiungere Sistiana. Il ritrovo in Piazza è alle 17.45 per le procedure preliminari, mentre la partenza è alle 18.
Maestro, a vedere l’archivio della Società dei Concerti, il suo rapporto con il sodalizio comincia nella stagione ’56-’57. Al pianoforte c’era Ernesto Galdieri. Come ricorda quel momento?
«È stato il mio primo concerto da professionista - risponde Accardo - . Si è svolto al teatro Nuovo. Come potrei non ricordare quella serata? È stata straordinaria. In programma c’erano una Sonata di Vivaldi, una Sonata di Bach, la Terza di Brahms e altre pagine ancora. Per l’occasione, avevamo pattuito un certo cachet, ma, a spettacolo finito, il presidente della Sdc, mi diede 10 mila lire in più».
Come può sintetizzare il suo legame con Trieste?
«È sempre stato meraviglioso, bellissimo. Da allora, ho anche collaborato anche con l’orchestra del Verdi. Mi viene in mente una serata con Daniel Oren, ma anche un’altra con Riccardo Muti, quando eravamo giovanissimi, per il Concerto di Šostakóvic. E, ancora, ricordo un Doppio di Brahms con Libero Lana. Inoltre, tra me e il Trio di Trieste, che ho incontrato tante volte, c’era una reciproca ammirazione. Quando il Trio incorse in un naufragio, in Sudamerica, nel ’63, io ero a Buenos Aires e dovevo incontrarmi con i suoi componenti: avremmo dovuto cenare assieme. Io ero con mio padre, che preparò un bagno caldo a De Rosa e a Zanettovich quando, dopo quel naufragio, tornarono in albergo».
Tornando al suo rapporto con la Sdc, cosa la legava al suo direttore artistico Derek Han, recentemente scomparso?
«È stato un grande amico e un magnifico pianista. L’ho invitato a collaborare ai miei corsi all’Accademia Chigiana di Siena, come pianista della mia classe. Abbiamo poi suonato assieme molte volte».
A Portopiccolo si esibirà con l’Orchestra da Camera Italiana. Può presentarla?
«È una formazione nata dai miei corsi all’Accademia Stauffer di Cremona: tutti i componenti sono allievi miei per quanto riguarda il violino, di Bruno Giuranna per la viola e di Rocco Filippini (deceduto da poco) per il violoncello. È quindi un’orchestra con un’identità ben precisa, con una visione della musica a tutto tondo e molto rispettosa del volere dei compositori».
Il lockdown le ha permesso di affrontare qualche pagina nuova, di ritornare su un autore in particolare?
«Ciò accade sempre, ma dico sempre ai miei allievi di non aver mai studiato così tanto. E poi ho molto suonato con mia figlia Irene ((una Sonata di Mozart e una di Beethoven), che pianisticamente è assai dotata. Ha dodici anni; la sua gemella è invece più interessata al musical».
Quanto ha suggerito alle sue figlie di avvicinarsi alla musica?
«È stato tutto molto naturale. Con mia moglie Laura Gorna, spalla dell’orchestra da Camera Italiana, non volevamo che le nostre figlie studiassero necessariamente musica. Prima, Irene aveva cominciato a suonare il violino; in seguito, è passata al pianoforte. “Vuoi suonare il piano perché è più facile…” le ho detto. “No, la verità è che ci sono già troppi violinisti in questa famiglia” mi ha risposto». —
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