Addio a Franco Zeffirelli dal cinema al teatro, regista totale

Franco Zeffirelli, o meglio il Maestro come lo chiamavano tutti, se n’è andato ieri a Roma a 96 anni, autore e artista amato e odiato come pochi italiani contemporanei. Un D’Annunzio della seconda metà del Novecento. Regista cinematografico e teatrale di fama internazionale, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze, allievo di Luchino Visconti, Zeffirelli era stato soprattutto un formidabile mediatore fra due mondi e due culture, quella italiana e quella anglosassone. «È in tale funzione che si è sempre sviluppata la vena più originale del nostro – scriveva Tullio Kezich nella recensione al film “Un tè per Mussolini”(1999) – non a caso affermatosi quarant’anni fa a Londra con il “Romeo and Juliet” dell’Old Vic Theatre (c’era Judi Dench) come vitalistico riformatore della regia shakespeariana».
Era il 1959, e mentre stava dirigendo un’opera a Palermo (in quegli anni si cimentava nelle regie nella prosa e nella lirica, come una Manon Lescaut al teatro Verdi di Trieste nel ’58) una voce al telefono da Londra sorprese Zeffirelli con l’offerta di mettere in scena “Romeo e Giulietta” all’Old Vic. Convinto che si trattasse di uno scherzo, il regista scoprì invece che Michael Benthall, direttore del mitico teatro, avendo visto la sua “Cavalleria rusticana” voleva proprio da lui uno Shakespeare all’italiana. Preoccupato di cacciarsi in un’avventura troppo grande, Zeffirelli chiese lumi al suo maestro Visconti, di cui era stato assistente alla regia per “La terra trema” e “Bellissima”. «Non farlo – gli raccomandò Visconti – se fallisci non ti rialzi più». L’allievo prese il consiglio alla rovescia e si buttò a realizzare uno spettacolo tutto di giovani, che lanciò, insieme alla ragazza Judi Dench, la moda dei capelli lunghi anticipando i Beatles. Dopo la “prima” partì una bordata di critiche negative, ma a rovesciare le sorti fu Kenneth Tynan sull’”Observer” con un articolo entusiastico.
Non a caso, a imporre poi Zeffirelli nel panorama internazionale del cinema sono proprio le regie di due raffinati film scespiriani realizzati nella seconda metà degli anni ’60, “La bisbetica domata” (1967) e appunto “Romeo e Giulietta” (1968). Nel primo (prodotto dalla Columbia), uno smagliante Richard Burton e una procace Liz Taylor, coppia regina del gossip dell’epoca, sono i protagonisti di un superspettacolo d’autore in cui Zeffirelli sottrae la vicenda al predominio del dialogo a vantaggio della costruzione visiva, che guadagna due nomination all’Oscar per scenografia e costumi. La storia d’amore di Zeffirelli con “Romeo e Giulietta” era intanto proseguita nel 1964 con la versione teatrale italiana dello spettacolo, protagonisti Anna Maria Guarnieri e Giancarlo Giannini al Teatro Romano di Verona. Qualche anno dopo, sull’onda del successo de “La bisbetica domata”, nasce il progetto di trasferire al cinema anche la storia dei due innamorati veronesi. Girato tra Gubbio, Pienza e Cinecittà, protagonisti Olivia Hussey (costretta a una cura dimagrante) e Leonard Whiting, il “Romeo e Giulietta” di Zeffirelli costò un milione e mezzo di dollari e ne incassò cinquanta. Freschezza e autentici accenti di commozione si ritrovano in questo inno alla gioventù, grazie al quale il direttore della fotografia Pasqualino De Santis e il costumista Danilo Donati ottengono due meritati Oscar.
Nel cinema di Zeffirelli la raffinatezza della confezione diventa sostanza narrativa, come accade anche in “Fratello sole sorella luna” (1972) su San Francesco (Graham Fauylkner), altro poetico affresco sulla gioventù con lo sguardo rivolto alla cultura hippie, approccio che si ritrova anche nel Cristo ribelle e scapigliato del kolossal tv Rai “Gesù di Nazareth” (1977).
Lontano dall’Italia, il regista che si vantava di aver girato tutti i film in inglese ottenne sempre grandi successi, e il pubblico anglosassone impazziva per le sue regie di opere e film (come “Amleto” del 1990 con Mel Gibson e Glenn Close). Il cinema e la cultura italiani e francesi, invece, non sono mai stati troppo teneri nei confronti del suscettibile Maestro. Tanto che nella recensione di “Otello” (1986, che i “Cahiers du Cinéma” consigliavano di vedere a occhi chiusi), un Kezich sornione si sente in obbligo di riassumere (un po’ autoassolvendosi) l’atmosfera critica poco benevola verso il regista fiorentino: «Parlando dei suoi film, che professionalmente meritano ogni rispetto, capita di scivolare su toni ilari e a volte impudenti».
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