Addio a Ramenghi, un maestro

Morto il giornalista che ha speso la sua carriera tra Repubblica e L’Espresso

L’appuntamento era il lunedì mattina sul Frecciarossa che passava da Bologna alle 7.10 e mezz’ora dopo fermava a Firenze, dove salivo anch’io. Tornavamo entrambi a Roma dopo il week end a casa. Alle 8 Antonio mi mandava un sms, puntuale: «Sei salito? Io sono nella carrozza 6». Lo raggiungevo. Tante chiacchiere per raccontarci le ultime sul Gruppo Espresso, le soddisfazioni e le delusioni, i timori per il futuro, i progetti. Amava lavorare all’Espresso, dov’era vicedirettore e, di fatto, vero uomo macchina. Poi cominciava a parlare del figlio, l’attore, che «temporaneamente abita con me». Orgoglioso e, insieme, protettivo.

Dieci minuti prima dell’arrivo nella capitale scattava come una molla: «Andiamo, dai, dobbiamo scendere dalla testa del treno e arrivare ai taxi prima degli altri!». Ogni volta, una corsa sfiancante attraverso Termini: trascinava il trolley che non mollava mai, nemmeno nei lunghi mesi di una dolorosa ernia. Dentro, le camicie pulite e il pacco di giornali. S’ingarellava con i passeggeri altrettanto di fretta: loro probabilmente in ritardo, lui che voleva essere alla scrivania prima dei colleghi. «Ce l’abbiamo fatta, per le nove e mezza saremo in ufficio. Perfetto». Così, per anni.

Antonio Ramenghi, morto ieri a 72 anni a Bologna, l’ho visto sempre in movimento, alla ricerca continua di idee e iniziative, un macinatore di pezzi e titoli, un esempio di rettitudine e dedizione, un maestro per i giovani redattori, un punto di riferimento per gli “inviatoni”. All’Espresso per undici anni, dal 2000, il suo cuore ha sempre battuto soprattutto per Repubblica: cronista di economia a Milano dal 1983, poi capo del settore economico a Roma, dell'edizione bolognese in due diverse fasi e di quella milanese. Il suo esordio, nel 1974, è stato nella redazione del settimanale tecnico-sportivo Autosprint, a Bologna. Poi l’esperienza fugace ma formativa al Foglio di Bologna e Modena.

Quello per il giornale fondato e diretto da Eugenio Scalfari, con il quale aveva un rapporto quasi filiale, è stato un innamoramento, nonostante le due parentesi ai vertici del Mondo e del Sole 24 Ore. Gli ultimi anni di attività li ha consumati nei giornali locali, alla direzione della Gazzetta di Modena e infine, dal 2012 al 2014, dei quattro quotidiani veneti della Finegil, il mattino di Padova, la tribuna di Treviso, la Nuova Venezia e il Corriere delle Alpi.

A Padova non ha voluto una casa, preferendo dormire in un albergo di fronte alla sede del Mattino in modo da essere presente in caso di necessità. Soprattutto, dall’osservatorio redazionale lì a due passi «provo a interpretare al meglio i bisogni informativi di un’area tanto vasta quanto complessa», come mi disse mentre in auto risalivamo la Valsugana per l’ultimo saluto a un altro maestro bolognese di giornalismo, Angelo Agostini.

Un innovatore, sempre: nella scrittura delle vicende economiche negli anni milanesi, nella capacità di accompagnare i continui aggiornamenti tecnologici e stilistici delle testate che ha guidato, nella transizione verso il digitale alla quale si è appassionato a Modena e ha affinato e applicato in Veneto. Una volta lasciato il Gruppo Espresso, ha dato vita al sito lacostituzione.info. In uno dei suoi ultimi editoriali ha scritto di come si può trasformare il dovere di compilare la dichiarazione dei redditi in un passaggio che ci faccia sentire parte di una comunità: «Abbiamo la possibilità di scegliere come finalizzare parte della nostra contribuzione.

Un modo per incidere, ciascuno con una quota del proprio reddito, esercitando tutte e tre le opzioni relativamente alla destinazione dell’8, del 5, del 2 per mille del reddito. Tre opzioni che non tutti esercitano.

Ed è a mio parere un errore, perché in questo modo si rinuncia a esprimere il proprio pensiero e a sostenere concretamente realtà importanti che riguardano il credo religioso, la ricerca scientifica, la difesa del territorio e dei beni artistici e culturali, la galassia del volontariato e le organizzazioni che si occupano di medicina e cura, di assistenza e prevenzione, l’organizzazione politica che si esprime nei partiti. Sono convinto che se tutti esercitassero queste tre opzioni, le cose andrebbero meglio su molti fronti».

Chiaro, diretto ed esaustivo. Probabilmente, soprattutto di questi tempi, pochi condividono idee così laiche e compassionevoli.

Eppure, come Antonio avrebbe detto, «non è una buona ragione per non esprimerle».

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