Addio al mito Omar Sharif indimenticato Dottor Zivago

L’attore è morto al Cairo, dov’era ricoverato, per un attacco di cuore. Aveva 83 anni ha interpretato oltre oltre cento film, da Lawrence d'Arabia a Monsieur Ibrahim
Di Paolo Lughi
30 Mar 1995 --- Actor Omar Sharif --- Image by © Matthew Mendelsohn/CORBIS
30 Mar 1995 --- Actor Omar Sharif --- Image by © Matthew Mendelsohn/CORBIS

Negli anni ’60, anche dopo lo straordinario successo di “Lawrence d’Arabia” (1962, una candidatura all’Oscar e un Golden Globe) e soprattutto del “Dottor Zivago” (1966, un Golden Globe), la critica continuava a scrivere di Omar Sharif che era il tipico attore con un’espressione sola, adatta per ogni situazione. Ma lui ha dimostrato invece col tempo, fino agli ultimi titoli di una carriera quanto mai internazionale e longeva (“Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano”, 2003; “El Mosafer”, 2009), di essere un grande artista sensibile, con un talento versatile che andava ben oltre alla semplice carica magnetica.

Certo, Omar Sharif è stato uno dei più celebri seduttori “naturali” dello schermo. Grandi occhi scuri espressivi, fascino romantico e misterioso, fisico aitante, baffo che ha conquistato milioni di spettatrici, Sharif aveva sempre avuto una vastissima platea femminile che ne seguiva le gesta. Ma in un’intervista di venticinque anni fa, quand’era ancora un indiscusso sex symbol, faceva emergere di sé un’immagine completamente opposta: “Non sono riuscito a costruire una famiglia – diceva - che potesse darmi le gioie che un uomo deve saper conquistare. Ho trascorso gli ultimi vent’anni della mia vita in alberghi di tutto il mondo”. L’attore egiziano (nato ad Alessandria nel 1932, anche se di origine libanese), che alla carriera cinematografica aveva affiancato una leggendaria attività di giocatore di bridge e di backgammon, aveva fatto parlare di sé tutti i giornali per i numerosi flirt (il più celebre? Barbra Streisand). Ma sono in pochi a sapere che Sharif si è sposato una sola volta con una famosa attrice egiziana (per cui si convertì dal cristianesimo all’islam), Faten Hamama, e che proprio per questa sua vita da nomade il matrimonio è fallito. Tuttavia Sharif anche scherzava sul essere divo: “Il destino mi ha buttato anima e corpo nella diaspora, decidendo che avessi successo nel mondo del cinema”.

Sharif divenne subito infatti una star degli schermi egiziani, lavorando con i registi maggiori dagli anni ’50, da Youssef Chanin a Salah Abu Seif, imponendosi come uno degli attori più amati. La fama in campo internazionale arriva però nel decennio successivo grazie al maestro del cinema inglese David Lean, che lo sceglie per interpretare lo sceicco Alí Ibu el Harish nell’esotico “Lawrence d’Arabia” (1962), per il quale ottiene la nomination all’Oscar come migliore attore non protagonista. Nel 1964 un’altra bella occasione gliela offre Fred Zinnemann in un buon film d’azione accanto a Gregory Peck ed Anthony Quinn, “…e venne il giorno della vendetta”. Ma il successo definitivo arriva due anni dopo negli innevati scenari russi del “Dottor Zivago” (1966), ancora con David Lean e al fianco di una luminosa Julie Christie, stavolta nella parte – romantica e intensa come vuole l’epico dramma – del protagonista Yuri. Un ruolo di tale impatto nell’immaginario di quegli anni, che viene presto tentato il bis in chiave asburgica, facendogli interpretare l’Arciduca Rodolfo in “Mayerling” (1968) di Terence Young, al fianco di Catherine Deneuve.

Poi, sempre bello e romantico, lo si ritrova in Italia per interpretare una graziosa favola di Francesco Rosi, “C’era una volta…” (1967), mentre il grande William Wyler lo richiede per la parte di un giocatore d’azzardo in “Funny Girl” (1967) accanto a Barbra Streisand, e Richard Fleischer gli fa impersonare – perfetto tanto è somigliante – un bellicoso e sorprendente Che Guevara nel biografico “Che!” (1969). Nelle pellicole che gira successivamente a raffica in questo periodo d’oro, dà sempre il volto a personaggi avventurosi un poco sopra le righe, ma sempre venati di romanticismo. È il caso anche del capitano solitario e generoso nel letterario “L’isola misteriosa e il capitano Nemo” (1973) di Juan Antonio Bardem, del Principe Hassan nella movimentata avventura esotica “Ashanti” (1978) di Fleischer, e dell’imbattibile campione di biliardo in “Baltimore Bullett” (1980).

Dagli anni ’80 in poi, svanita la prestanza giovanile, Sharif intensifica l’attività televisiva già iniziata un ventennio prima, allontanandosi un po’ dalle scene cinematografiche. Ma nel frattempo aveva anche interpretato una parte diversa dal suo cliché: un vedovo triste nel paraspionistico “Il seme del tamarindo” (1974) del grande Blake Edwards. Un’anticipazione di quel folgorante ruolo “malinconico” di Ibrahim, il negoziante arabo di alimentari a Parigi, che ha illuminato l’ultima parte della sua carriera nello struggente “Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano” del francese François Dupeyron. Un’interpretazione che gli ha fatto ottenere il premio César (l’Oscar francese) e che ha suggellato la consegna del Leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia 2003, dove il film venne presentato. Qui Sharif è un indimenticabile padre adottivo, insieme impacciato e paziente, che diventa amico di un sedicenne orfano inquieto, e con lui dà vita a un commovente road movie portandolo in automobile dalla Francia alla sua terra d’origine araba, centellinandogli le sue discrete e amorevoli lezioni di vita.

Un ruolo che sembra alla fine rivelare l’autentica identità dell’attore, perché se è vero che ha impersonato negli anni figure esagerate come sceicchi e sultani, emiri e maghi, principi e re, oltre a Genghis Kahn, il Capitano Nemo, Che Guevara, Melchisidek (nel “13° guerriero” di McTiernan, 1999), è vero anche che Sharif aveva dichiarato al culmine del successo: “In fondo mi sento ancora e profondamente un ‘fallah’, un contadino egiziano”.

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