Aleksandar Hemon: «I miei zombie incutono paura come i rifugiati»

Lo scrittore che nel 1992 è scappato da Sarajevo negli Stati Uniti durante la guerra ha raccontato a Venezia per Incroci di Civiltà il nuovo romanzo edito da Einaudi
Di Federica Manzon
Fierenze, 17-06-2011 HEMON Aleksandar, writer © BASSO CANNARSA
Fierenze, 17-06-2011 HEMON Aleksandar, writer © BASSO CANNARSA

di FEDERICA MANZON

«La mente non può immaginare nulla se non finché dura il corpo» sono le parole di Spinoza che compaiono in esergo a "L'arte della guerra zombie" (Einaudi, pagg. 273, euro 19,50), il nuovo romanzo di Aleksandar Hemon, autore sarajevita, stabilitosi negli Stati Uniti nel 1992, quando lo scoppio della guerra nei Balcani lo bloccò a Chicago.

I corpi, viventi o meno, dettano legge in questa storia e impongono i loro bisogni. Il titolo italiano è fuorviante, l'originale "The Making of Zombie Wars" sta a indicare la lunga gestazione di "Guerre zombie", una vera e propria sceneggiatura che un inetto protagonista di sveviana memoria, Joshua Levin, tenta di scrivere per sfondare nel mondo del cinema. Joshua ha un'idea dietro l'altra ma raramente riesce a portarle a termine, gli mancano disciplina e volontà, e poi la vita gli tende agguati da ogni lato. Frequenta un workshop di scrittura con un insegnante antisemita e perdigiorno di ogni sorta tra cui Bega, un bosniaco disadattato e brillantemente cinico. La classe dove insegna inglese per stranieri è composta da russi che lo deridono e dalla bella Ana con il suo "anaplomb" e le conturbanti gonne sopra il ginocchio. E poi c'è la glaciale fidanzata Kimiko e un padrone di casa ex reduce di guerra, affettuoso e fuori di testa.

In questo mondo di sradicati dove i traumi non difettano, Joshua si muove con l'inerzia del giovane ebreo americano la cui più grande difficoltà nella vita è stata il divorzio dei genitori e la cui massima aspirazione è una carriera come sceneggiatore, aspirazione fino a qui fallimentare.

Ma ora eccola, l'ispirazione: "Guerre zombie". «Gli zombie, come molte altre creature soprannaturali, sono il prodotto del lato oscuro degli umani -, spiega Hemon, ospite del festival veneziano Incroci di Civiltà -. Nascono da quelle che sono le nostre paure in un preciso momento storico».

Chi sono gli zombie?

«Sono morti viventi che arrivano da un luogo sconosciuto e vogliono penetrare nella nostra società per controllarla. Nei primi film di Tourneur erano rappresentati in modo molto simile agli umani. È stato George Romero, alla fine degli anni '60, a trasformali in esseri "diversi da noi", che non muoiono e non fanno sesso. E questo perché potessero incarnare al meglio la paura dell'individualista borghesia americana, a quel tempo terrorizzata dagli afroamericani che minacciavano la stabilità del sistema».

E oggi?

«Gli zombie sono masse percepite come non umane. Che è esattamente quello che sta cercando di fare la propaganda con la questione dei rifugiati: trasformarli in zombie, masse indistinte senza desideri, senza interiorità. Ma non dobbiamo dimenticarci che gli zombi nascono dalle paure della borghesia occidentale».

Il suo romanzo mostra due tipi di violenza molto diverse: quella televisiva dell'invasione americana in Iraq e quella fisica e quotidiana dei personaggi, per lo più immigrati europei.

«Joshua è l'anello di congiunzione tra questi due tipi di violenza. È cresciuto in una famiglia ebrea mediamente infelice, per lui i conflitti sono una guerra su schermo percepita come gioco, che non tocca mai direttamente i corpi degli americani: non a caso le bare non vengono mostrate, come se a combattere fossero eroi/zombie che non muoiono mai. L'unica cosa a cui Joshua è mai sopravvissuto è la forfora. I suoi amici invece sono tutti sopravvissuti, alla guerra nei Balcani o in Medio Oriente, e sanno che in questione è sempre prima di tutto il corpo: danneggiato, mutilato, trasformato per sempre. Sanno che quando si sopravvive davvero a qualcosa niente è più come prima, non si può riavvolgere il nastro».

Questa è un'idea di tempo molto presente nei suoi libri: non l'infinito presente delle fiduciose possibilità, ma un tempo storico che porta delle conseguenze irrimediabili e delle responsabilità.

«Ho ambientato il romanzo durante l'invasione in Iraq proprio perché volevo mostrare una prospettiva critica rispetto all'idea messianica di avere tutte le possibilità aperte in ogni momento, che ha animato la folle intenzione americana in quei giorni. Se in un libro possiamo andare avanti e indietro nelle pagine, non possiamo fare così con le nostre vite. Quando una scelta è compiuta niente può essere più come era prima e niente tornerà mai a esserlo. E questo ovviamente comporta conseguenze e responsabilità».

Joshua non sceglie, è piuttosto scelto dagli eventi...

«Lui è passivo, per questo la sua vita fatica così tanto a trovare un senso: le donne lo seducono e lo lasciano, gli uomini gli diventano amici e lo tradiscono. Insegna inglese, conosce la grammatica, eppure per lui le parole non producono mai effetti, rimangono sterili perché non le sceglie, ne subisce il fascino passivamente. È solo nella sceneggiatura che è costretto a fare delle scelte, e questo rende possibile una storia e un senso».

I maschi del romanzo hanno un bisogno disperato di stringere amicizia, ma la virile complicità fatta di bevute e soliloqui e pugni sulla spalla finisce spesso male...

«Una delle cose che volevo mostrare con il personaggio di Joshua è una critica al modello di virilità maschile che ha costruito l'immaginario americano e che si riflette anche in parte della letteratura. È il motivo per cui non amo Philip Roth, perché la psicologia dei suoi personaggi spesso è dominata dall'idea di fare sesso e basta. Non mi piace che l'identità maschile si riduca a prove da vecchio di film di John Wayne. Volevo che Joshua, passivo com'è, fosse però in grado di mettere in crisi questo modello e di farlo in modo divertente».

Architettare il futuro è una tara umana, e da questo nasce il cinema, pensa Bega. E i libri?

«Il libri mettono insieme i frammenti, i ricordi, le scelte e li dispongono nella linea del tempo, così diventa possibile dare un senso alla nostra vita e immaginare il futuro a partire da una struttura temporale responsabile. Ciò che mi interessa come scrittore è la narrativa e umanistica possibilità dell'uomo di compiere sempre una scelta individuale in un preciso contesto e in un'epoca storica».

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