Alessandro Fullin, tra Sissi e Basabanchi c’è il cuore triestino. Ma è meglio scrivere che sferruzzare

TRIESTE Su quella parlata, dove le vocali strascicate e stridule si allungano come una fune di salvataggio protesa all’esausta “erre” per tirarla a riva, Alessandro Fullin ha edificato una consistente parte della sua cifra comica. Adattissima all’isterica professoressa di tusculano che lo ha fatto conoscere al grande pubblico televisivo con “Zelig”, suona assolutamente perfetta all’orecchio triestino per trasformare in babazze da Pedocin Sissi e Carlotta del Belgio, in una relazione di odio-amore che consuma il mito della Trieste austroungarica e lo modella sui maneggi della prosaica vita quotidiana. Vaporosi e spumeggianti dialoghi, tra jota e sardoni, delle due cognate portati nel recente passato sul palcoscenico del Teatro Bobbio in felice sodalizio con la Contrada, e tratti da due libriccini andati a ruba come il pane.
Fullin, come mai un disegno così impertinente dell’ultima imperatrice?
Ah, quando sento il mio dialetto, mi si spalancano letteralmente i chakra, i centri energetici del corpo che distribuiscono l’energia vitale. Sissi ha un posto stabile nel reliquiario del cuore triestino, anche se in tutto il suo regno omaggiò la città con un soggiorno di due giorni, da turista mordi e fuggi. Stappo un barolo e via: scrivere in triestino è come per un’emiliana fare le tagliatelle: conta i commensali, ci mette il numero giusto di uova, la farina, impasta… e la tavola è imbandita.
Intende dire che scrivere le viene naturale?
Spesso lo faccio in treno, durante gli spostamenti per gli spettacoli. Sono veloce, scrivo in pratica ciò che già è pronto dentro e aspetta solo di essere messo in forma, seguendo il filo del gomitolo interno. In verità mi piacerebbe sferruzzare, ci ho provato, ma mi ingarbuglio, peggio che con il dialetto, con tutte quelle ‘x’ che sembrano i risultati di una schedina del totocalcio. Ma il mio sogno recondito resta quello di bloccare il controllore con faccia arcigna, perché sto calando una manica e non vorrei perdere i punti per dovergli esibire il biglietto.
E a che punto è invece la sua vita?
Guardo dalla finestra e vedo un paesaggio metafisico, dechirichiano, stile ‘Mistero e malinconia’, fuga di arcate deserte ma senza la silhouette della bambina che lancia il cerchio. Sembra la visione dei portici di Chiozza negli anni 80. Allora Trieste non era particolarmente gagliarda, alle 9 di sera anzi era un pianto per i diciottenni come me, mica come adesso che in via Torino si scatena l’inferno.
A proposito, come mai abita a Torino?
Semplice, era meno cara di Bologna e Milano. Torino ha appartamenti a prezzi fantastici. Mi sono trasferito a Bologna per studiare al Dams, dopo il diploma all’Istituto d’arte, allora la facoltà pot-pourri c’era solo lì. In seguito, quell’incredibile fabbrica di disoccupazione - devo ancora conoscere qualcuno che con quella laurea abbia trovato lavoro - si è moltiplicata per partenogenesi. Gli studenti d’ingegneria, poveri, sempre chini sui libri e noi del Dams vivevamo solo il dramma di dover scegliere se spaccare la serata tra un teatro out off o una performance di una poetessa punk, un cineforum o un vernissage.
È a Bologna che ha cominciato a calcare le scene?
Sì, ho cominciato per caso, facevo la soubrette, cos’altro? Avrei passato la vita a comperare quadri, ma provengo da una famiglia povera, devo lavorare per mantenermi. Ora faccio il capobanda di alcuni giovanotti con cui ho messo in piedi ‘Piccole gonne’, parodia di ‘Piccole donne’ e ‘La Divina’ dove vesto i panni di Dante in perenne fuga da quella stalker di Beatrice.
Ma il lancio nel firmamento dello spettacolo fu ‘Zelig’. Come andò?
Andò che Giancarlo Bozzo, l’autore, mi vide recitare a Milano. Certi eterosessuali sono davvero sorprendenti. I miei 58 metri quadri a Torino li devo a lui. A Bologna o Milano starei ancora pagando il mutuo, invece sono riuscito a saldare in quattro anni. Uscivo in scena e nel conto entravano i soldi, una meraviglia. Peccato, è durato poco, tre o quattro anni, inclusa la sit-com ‘Belli dentro’. Invece le piastrelle del bagno le hanno pagate Sissi, Carlotta e un libro di ricette, io che non ho cucina ma solo un microonde.
Gli attori in questo frangente di pandemia sono particolarmente esposti…
Dell’essere ricco per poco ho fatto una regola di vita. Ho partita Iva, mi affido alle promesse di Conte, ma certo non potrà fare miracoli a lungo termine visto l’indebitamento dell’Italia. Tutte le date di marzo e aprile sono saltate e non c’è altra soluzione che dar fondo ai risparmi. Virus permettendo in autunno dovrei tornare a recitare a Trieste, con gli splendidi colleghi della Contrada in “Cuguluf”, il dolce preferito di Jane Austen la volta che la romanziera, scalzata nelle vendite dalle sorelle Bronte, depone orgoglio e pregiudizio e vi si trasferisce. La Austen è un talismano contro i dolori della vita.
Ora che è in pausa forzata come passa il tempo?
Ah, non mi parli del tempo che passa! Ho 55 anni e vista l’età posso girare solo con il pareo attorno ai fianchi. Al momento progetto, dipingo, leggo, guardo film: vivere del mio mestiere è un privilegio. Ma rischio di perdere il senso delle proporzioni, come le zitelle, che lavorano all’uncinetto presine gigantesche. Il dramma della solitudine. Poi mi vengono voglie improvvise… cosa non darei per una “s’ciopeta”. Adoro la cucina triestina, ma da qui faccio prima a raggiungere una trattoria del Belgio e comunque mi astengo il più possibile dalla carne. Il pianeta sarà ridotto in condizioni terribili, senza acqua ma gremito di suore, perché quando le cose vanno male ci si rifugia nella fede. Rischiamo di trovarci tutta Trieste affrescata da Duccio da Sgonico, che non è propriamente il Tiepolo, come il refettorio delle Basabanchi. —
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