Alla fine il “Tesoro dei vinti” lo prese il Partito comunista

Gianni Oliva rilegge le carte del processo sulla scomparsa dell’oro di Dongo
Di Pietro Spirito

di Pietro Spirito

Buona parte dell’oro di Dongo finì in mani private, ma una parte altrettanto consistente del tesoro transitò nelle casse della federazione comunista di Como, prima di essere trasferito a Milano, dove potrebbe essere «stato impiegato per le necessità finanziarie legate alla liquidazione dei partigiani garibaldini dopo la smobilitazione delle formazioni; oppure può essere stato trasferito alla sede nazionale del partito e utilizzato per esigenze organizzative varie, dall’acquisizione di stabili al pagamento di funzionari». Di certo non si è mai saputo con certezza dove siano finiti i valori sequestrati a Mussolini, ai suoi gerarchi e a quanti lo accompagnavano nel suo ultimo tentativo di fuga nell’aprile del ’45. A quanto ammontava il tesoro di Dongo? Ci sono varie ipotesi, ma la più accreditata propende per una valore di 66.259.590 dollari, pari a otto miliardi di lire dell’epoca, suddiviso in contanti, rottami d’oro, gioielli, assegni, valuta straniera, insomma di tutto. Della sparizione - e spartizione - di quel tesoro si parlò e si indagò, e molto, da subito. Ma dopo settant’anni il mistero rimane irrisolto, anche se proprio «nella documentazione d’archivio ci sono elementi sufficienti per una ricostruzione attendibile». Ed è appunto una ricostruzione attendibile quella che fa Gianni Oliva nel suo ultimo libro, da oggi in libreria, “Il tesoro dei vinti” (Mondadori, pagg. 264, euro 20,00), nuova versione della storia infinita delle ultime ore di Mussolini e di cosa accadde alle ingenti quantità di preziosi sequestrati dai partigiani al Duce e a quanti condivisero la sua fine. Per raccontare questa storia Oliva è andato a rileggere le carte del processo che dodici anni dopo i fatti venne istruito dalla Corte d’Assise di Padova, processo interrotto dopo quaranta audienze per il suicidio di uno dei giudici popolari e mai più ripreso. Un processo che ha lasciato in sospeso non solo verità intorno al “tesoro dei vinti”, ma ha lasciato a piede libero anche i responsabili degli omicidi che hanno fatto da contorno alla vicenda del tesoro: la morte del “capitano Neri” e della sua compagna “Gianna”, un’amica di quest’ultima, Anna Maria Bianchi, e il partigiano Giuseppe Frangi, “Lino”, uno dei carcerieri di Mussolini. Tutti testimoni scomodi di qualcosa che non si doveva sapere. Oliva, con la capacità narrativa e il rigore storico che gli sono propri, ricostruisce tutte le fasi della vicenda a partire dagli ultimi giorni di Mussolini, racconto che da solo prende buona metà del libro.

Poi passa a esaminare momento per momento cosa accadde al tesoro sequestrato, mette a confronto le varie - tante versioni - ma soprattutto analizza i documenti processuali, «879 pagine di verbali fitti, dattiloscritti con interlinea uno». Procedimento giudiziario che, come detto, rimase incompiuto. La morte di uno dei giurati significava rinviare il procedimento a nuovo ruolo, cioè ricominciare tutto daccapo. Ma l’avvio del processo non ci sarà «anche perché il coinvolgimento di due parlamentari (Dante Gorreri e Pietro Vergani) comporterebbe i tempi lunghi delle autorizzazioni a procedere». Poi due amnistie, nel 1970 e nel 1973, «saneranno le p. endenze ancora aperte di alcuni degli imputati e metteranno fine alla dimensione giudiziaria della vicenda». Resta la responsabilità politica di quei fatti. E qui Oliva è lapidario: «La responsabilità del Partito comunista nelle gestione dell’emergenza di fine aprile sul lago di Como risulta con tutta evidenza».

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