Andrea Franzoso “Il disobbediente” che rischia per onestà
In un libro la vicenda del dipendente delle Ferrovie Nord che ha denunciato il suo presidente per truffa e peculato

Nel paese dei furbi l’hanno chiamato spione e l’hanno emarginato, perché ha osato denunciare le scorrettezze di un sistema che si è sempre sostenuto sull’omertà di tutti coloro che ne facevano parte. Pagando per questa sua denuncia un prezzo personale molto alto: il vuoto intorno e il trasferimento in un ufficio senza più alcun compito di controllo, così da convincerlo a lasciare il lavoro. Ma in Friuli Venezia Giulia
Andrea Franzoso
, autore del libro
“Il disobbediente”
(Paper First, 2017, pagine 169, euro 15)
arriverà da vincitore, perché l’eco nazionale ottenuto con la sua storia è stato fondamentale per l’approvazione della legge sui Whistleblowers, letteralmente i “soffiatori di fischietto”: un pacchetto di misure a tutela dei dipendenti che segnalano illeciti avvenuti all’interno della propria azienda. Domani sarà a Cormònslibri alle 18.45, sabato a Udine e a Trieste.
Nel libro Andrea Franzoso ripercorre la sua storia. Quella di un funzionario dell’audit di Ferrovie Nord, un ex ufficiale dei Carabinieri, che è stato punito con la perdita del lavoro per aver fatto il suo dovere: ha denunciato senza timore, e mettendoci la faccia, le spese illecite del suo capo. Quasi 500mila euro di fondi pubblici, usati da Norberto Achille, l’allora presidente di Ferrovie Nord, e dai suoi familiari per shopping, pranzi, auto, telefonate, vacanze, multe, film porno e così via. Ma anche per fare regali a politici amici, come l’ex presidente lombardo Roberto Formigoni per il quale, ha denunciato Franzoso, Achille ha acquistato tre quadri antichi con denaro aziendale. L’ex presidente di Ferrovie Nord oggi si ritrova con una condanna in primo grado a 2 anni e 8 mesi con il rito abbreviato per peculato e truffa aggravata, mentre Franzoso prosegue il suo tour in tutt’Italia per far conoscere la sua storia.
Quando cominciò a capire che in Ferrovie Nord c’era qualcosa che non andava?
«Nel 2014 mi giunse all’orecchio la voce che il presidente usasse la carta di credito aziendale in modo “allegro”, addebitando alla società spese personali sue e della sua famiglia. Non rubava di nascosto, lo sapevano in molti. Quando chiedeva rimborsi non dovuti le note spesa venivano preparate dalle segretarie, quindi andavano ai contabili, che le approvavano perché il direttore amministrativo le autorizzava».
Come si comportò?
«Come avrebbe dovuto fare un dipendente qualsiasi: lo segnalai all’Organismo di Vigilanza che fece partire una verifica interna, completata nel febbraio 2015. Dal report emergeva in maniera evidente che negli ultimi quattro anni il presidente s’era fatto spesare l’impossibile: viaggi, abiti, profumi, oltre 181 mila euro di multe accumulate dal figlio con la Bmw aziendale, oltre 124 mila euro di bollette telefoniche sue e dei suoi familiari. Quando in febbraio lo presentai a tre consiglieri di amministrazione e al presidente del collegio sindacale la cosa non fu presa per niente bene. Mi fu chiesto di ammorbidirlo e riscriverlo, togliendo gli allegati che riportavano l’elenco delle “spese folli”. Insomma: volevano “sistemare le carte”. Achille era presidente da 17 anni, messo lì per volontà di Formigoni. In cambio del mio silenzio mi fu prospettata una promozione a dirigente. Ma quando mi opposi e dissi che non intendevo modificare neppure una sillaba iniziarono le intimidazioni nei miei confronti: mi dissero che non avrei più lavorato».
E quindi?
«Davanti al tentativo d’insabbiare tutto andai dai carabinieri. Non ebbi alcuna esitazione, l’indignazione e la rabbia per quella vergognosa ingiustizia mi fecero scattare come una molla: il presidente aveva uno stipendio di 300mila euro all’anno e negli ultimi 4 anni aveva richiesto rimborsi illeciti per circa 500mila euro. Si faceva rimborsare persino la spesa dal fruttivendolo o al supermercato, la toelettatura del cane, i soldi del caffè. Di fronte ai tentativi d’intimidazione iniziai a raccogliere prove e a registrare le conversazioni».
Avrebbe potuto fare una denuncia anonima, perché invece ha deciso di firmare l’esposto?
«Perché non era solo una questione aperta con la mia coscienza, era importante che io rispondessi delle mie scelte anche pubblicamente. Volevo che sapessero che ero stato io a denunciare. Il mio fu un atto di disobbedienza civile, da qui il titolo del libro, “Il Disobbediente”»
Qual è il valore di un gesto di disobbedienza civile oggi?
«Nel suo saggio “La disobbedienza civile” Thoreau, parlando della schiavitù negli Stati Uniti, spiega come a parole tutti fossero d’accordo sulla sua abolizione, ma nei fatti non ci fosse nessuno disposto ad assumersi il rischio di trasgredire quella legge iniqua. È così anche per la corruzione: tutti la condannano, ma c’è un gran bisogno di persone che prendano una posizione netta sul tema, affrontando anche conseguenze negative pur di non essere conniventi. Dobbiamo smetterla di pensare che la corruzione sia nel dna di noi italiani, di pensare con rassegnazione che “tanto le cose non cambiano”. È solo un modo furbo per autoassolverci. C’è una mentalità che va combattuta: quella della filastrocca che c’insegnano fin da piccoli, “Chi fa la spia non è figlio di Maria”, quella che ripete continuamente Crozza nei panni del senatore Antonio Razzi, “Fatti nu poco li cazzi tua”».
Come reagirono i suoi familiari alla decisione?
«Quando mio padre venne a sapere della mia denuncia si preoccupò molto: “Finirà tutto in prescrizione e a quei farabutti non succederà nulla. Di te, invece, che ne sarà?”. Si sentì addirittura in colpa per non aver saputo fornirmi gli strumenti necessari per sopravvivere in questo mondo: “Mi pento di averti educato a certi valori - mi disse -. Se vuoi vivere onestamente, qui, hai vita dura. Vattene all’estero, perché l’Italia è il paese dei furbi”. Era una persona disillusa e ferita. Oggi sono riuscito a farlo ricredere».
Qual è stato il momento più difficile?
«Sono rimasto molto ferito dal voltafaccia di alcuni colleghi che stimavo. Dopo che la stampa rese pubblica la denuncia inizialmente fui perfino applaudito, ma durò pochissimo. Con l’arrivo dei nuovi vertici, dopo le dimissioni a cui fu costretto il presidente, fui isolato e privato di tutti i miei incarichi. Mi fu fatta terra bruciata attorno e fui messo nelle condizioni di lasciare il mio lavoro. Ma non mi pento di ciò che ho fatto, lo rifarei».
Perché ha deciso di raccontare la sua storia?
«Quando scoppiò lo scandalo delle spese pazze, nel maggio 2015, il mio nome finì su tutti i giornali. Ricevetti centinaia di messaggi da parte di gente comune. Soprattutto donne, mamme che mi dicevano: “Sei un costruttore di speranza per i miei figli, non lasciar cadere la tua storia”. Mi resi conto che la mia storia non era più mia, ma stava generando altre storie: qualcun altro aveva preso coraggio e deciso di denunciare. Perciò ho scritto questo libro: è un libro contro la paura».
È anche grazie al suo libro se la legge sui Whistleblowers è stata approvata. Che ne pensa?
«È una legge che l’Italia attendeva da tanti anni, un primo passo importante, anche se c’è ancora molto da fare: rimangono delle lacune nella tutela del lavoratore del settore privato».
Cosa bisogna fare adesso?
«La legge aiuta, ma il problema è culturale: c’è bisogno di un grande cambiamento in questo senso. In italiano non esiste un termine che corrisponda all’inglese “whistleblower”. Non c’è cioè una parola che definisca in positivo chi denuncia fatti illeciti: è una talpa, un delatore, una gola profonda, uno spione. Se non esiste la parola è perché non esiste l’idea. Il modo di pensare più diffuso è rappresentato da quel familismo o corporativismo amorale così radicato nella nostra società da impedirti di tradire il gruppo anche di fronte a palesi scorrettezze dei suoi membri. Bisogna puntare sull’educazione, sui giovani: mi piace dialogare con loro e sono felice di portare la mia testimonianza nelle scuole».
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