Borrometi, giornalista sotto scorta la mafia del Pachino lo vuole morto

Stasera, al Knulp, il cronista siciliano presenterà il volume che raccoglie le sue inchieste «Cosa Nostra non attira l’attenzione, ma è ben viva»



Solo pochi mesi fa stava per saltare in aria con un’autobomba. Si è salvato solo perché la polizia di Siracusa ha scoperto l’attentato e ha arrestato venti appartenenti a un clan mafioso. Volevano fare fuori lui e i cinque uomini di scorta. Paolo Borrometi, un giornalista siciliano che lavora a Tv 2000, direttore della testata on line la spia.it, da quattro anni vive difeso dallo Stato. Per raccontare le sue inchieste ha scritto un libro, ‘Un morto ogni tanto’ (Solferino), che presenterà oggi alle 21 al Knulp, invitato da Assostampa, Ordine dei giornalisti e Articolo 21.

Borrometi, com’è la sua vita sotto scorta?

«Un inferno. Vuol dire non poter andare allo stadio a vedere una partita, un concerto, andare al mare nella mia Sicilia. Per fortuna lo stato mi ha salvato la vita, senza scorta mi avrebbero ammazzato in altri modi. Ma, anche se ho perso la libertà fisica, penso di aver tutelato la mia libertà di fare il mestiere di giornalista».

Perché Cosa Nostra la vuole morto?

«Perché ho sollevato il caso ‘dell’oro rosso’, cioè del pomodorino Pachino. Ricostruendo il viaggio del pomodorino dalla raccolta a Vittoria, in provincia di Ragusa, fino a Milano da dove viene smistato ai mercati di tutta Italia, ho denunciato lo sfruttamento delle donne rumene, dei metodi mafiosi dei caporali, ho spiegato come la mafia si è infiltrata in tutta la filiera, dal trasporto alla vendita al dettaglio».

Chi non l’ha presa bene?

«La mia inchiesta ha portato alla esclusione dal consorzio Igp di Pachino della più importante azienda, che ha perso in questo modo ordini per milioni di euro. Sono cominciate le aggressioni, mi hanno spaccato una spalla, hanno tentato di dare fuoco alla mia casa a Modica e dal 2014 vivo sotto scorta».

Tutto questo c’è nel suo libro?

«Sì, anche se non è autobiografico. Oltre a raccontare la violenza delle agromafie affronto altri temi. Un’inchiesta riguarda uno degli imprenditori vinicoli più importanti del Trentino, che ha acquistato dei terreni che appartenevano a una cosca mafiosa».

Della mafia oggi si parla di meno?

«I cittadini non avvertono la mafia come un’emergenza, eppure è in mezzo a noi. Ho intitolato il mio libro ‘Un morto ogni tanto’ perché la mafia si muove senza attirare l'attenzione ma è ben viva».

Parliamo dei recenti attacchi ai giornalisti.

«Il giornalismo ha il compito di raccontare e lo deve fare a prescindere da tutto, anche dalla paura. Deve essere scomodo. Purtroppo per troppo tempo in questo paese il giornalismo non è stato il cane da guardia della democrazia ma il cane da compagnia». —

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