Calligarich racconta i destini di famiglia in un secolo d’Italia

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Da quarant’anni girava attorno a quella storia. Senza mai trovare il coraggio di scriverla. Fin dal 1973, quando Gianfranco Calligarich ha debuttato per Garzanti con il suo primo romanzo: “L’ultima estate in città”. Un inizio folgorante, segnalato subito dal Premio L’Inedito. Amato da tanti lettori e critici, dimenticato troppo in fretta. Intriso delle atmosfere mitteleuropee che lo scrittore, nato all’Asmara, si portava dentro fin dall’infanzia. Dal momento che la sua famiglia cosmopolita è originaria di Trieste.
Ma raccontare la propria storia, quelle delle radici, delle origini, è l’impresa più difficile. Infatti, Gianfranco Calligarich ha dovuto aspettare quarant’anni per poterlo fare. E il suo nuovo romanzo, “La malinconia dei Crusich” che esce giovedì pubblicato da Bompiani (pagg 442, euro 20), ha il sapore dell’impresa, della resa dei conti, della pacificazione con se stessi. Perché dietro il cognome inventato del titolo, ovviamente ci sono i Calligarich «ovunque siano», come annota lo scrittore nella dedica.
Calligarich, bisogna dirlo subito, non è uno scrittore che finora ha raccolto il successo che merita. Presentato da due totem come Natalia Ginzburg e Cesare Garboli al momento del debutto, ha aspettato parecchio per tornare a scrivere un libro tutto suo. Perché, nel frattempo, si è fatto conoscere come ottimo autore di sceneggiati televisivi (da “Storia di Anna” a “Piccolo mondo antico”), di film, di testi teatrali come “Grandi balene”, che ha ricevuto il Premio del Dramma Italiano di Fiume nel 1996.
Il successo da scrittore, in realtà, avrebbe potuto costruirlo su un suo libro di racconti: “Posta prioritaria”. Una piccola collezione di brevi, fulminanti storie perfette per un film a episodi. O per una pièce teatrale divisa in quadri diversi. Ma i suoi lavori successivi, “Principessa” e “Privati abissi”, pur accolti con favore dalla critica e capaci di conquistare la giuria del Bagutta, hanno riportato Calligarich al punto di partenza. A quando “L’ultima estate in città”, che Bompiani ripubblica proprio per l’uscita della “Malinconia dei Crusich”, era stato segnalato come il libro di un autore vero. Di uno che non va a caccia di facili consensi, non si accontenta di pregevoli esercizi di stile, ma guarda alla letteratura come a un mestiere serio.
Ecco, con i “Crusich” Calligarich ha saputo costruire forse il suo libro più convinto e maturo. Intriso di tutta la carnalità che può avere una storia scavata nei ricordi di famiglia, ma al tempo stesso pieno di fantasia, di sogni e illusioni, di memorie e invenzioni. Fin da quando lo scrittore si mette sulle tracce di suo nonno. Quell’Agostino, ribattezzato nella finzione Crusich, che da Trieste si era imbarcato per andare incontro alla sua vita in un’isola: Corfù, in Grecia. Un luogo di mare molto simile, ma assai diverso in realtà, di quella Trieste che ancora non era stata toccata dal Primo Grande Massacro Mondiale. E che, solo di lì a poco, avrebbe visto da vicino lo sfasciarsi dell’Impero austro-ungarico. Il tramonto di quello che sembrava il padre immortale del vecchio mondo mitteleuropeo: l’imperatore Franz Joseph. Il sovrano impiegato che tanto amore e tanto odio aveva scatenato nei suoi sudditi.
«Ci ho mersso quattro anni per scrivere questo libro - racconta Calligarich -, ma in realtà era da sempre che me lo portavo dentro. Il protagonista de “L’ultima estate in città”, in fondo, è un parente stretto dei Crusich. Un uomo pure lui che porta impressi nella sua anima i segni della fine di un tempo, di un mondo».
Muovendosi con passo leggero tra i ricordi, opportunamente reinventati e adattati alle esigenze letterarie, Calligarich segue il divenire di una famiglia numerosissima. Che si troverà ad affrontare i momenti drammatici del secolo breve: le due guerre, il fascismo, la guerra civile, il lento e difficoltoso ritorno alla libertà. Quasi un secolo d’Italia, e non solo, che lo scrittore racconta proiettando sullo schermo della Storia i destini di uomini e donne che, altrimenti, sarebbero rimasti anonimi.
«Non potevo lasciarli andare via così, senza lasciare un segno», dice Calligarich. Quando ha deciso di scrivere “La malinconia” l’ha fatto quasi sotto dettatura. Come se fosse una bisbiglio di voce, alle sue spalle, a suggerirgli il divenire del romanzo.
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