Calvino, il giurista che volle restituire la fede all’Occidente

Emanuele Fiume, triestino, pastore valdese a Roma ricostruisce la vita e l’opera del riformatore francese
«Cosa mi attrae di più della figura di Calvino? Il suo coraggio testardo. Non lascia mai un argomento a metà: arriva sempre al punto, sempre fino in fondo». Parola di
Emanuele Fiume
, triestino “doc”, pastore della chiesa valdese in via IV Novembre a Roma, a due passi da piazza Venezia. A sua firma è recentemente uscito il libro
“Giovanni Calvino. Il riformatore profugo che rinnovò la fede e la cultura dell’Occidente”
(
Salerno Editrice
,
pagg. 304, 19 euro
): un’occasione, quella dei cinquecento anni della Riforma protestante di Lutero e Calvino, per parlare con l’autore anche della sua scelta spirituale e professionale.


Partiamo dalle origini: la sua era una famiglia protestante?


«No. Nasco da una famiglia di religione cattolica, con livelli di “pratica”, diciamo così, differenziati tra i suoi membri. Dal devoto all’anticlericale, insomma».


Quando si è scoperto protestante e come?


«Semplicemente iniziando a frequentare i culti alla chiesa elvetica e valdese di San Silvestro, a Trieste. Ho scoperto una predicazione fondata sulle Scritture, ho trovato una comunità cristiana che non aveva veramente niente da dire se non il messaggio di Cristo, con semplicità e chiarezza. Ho proseguito la mia formazione spirituale e culturale, sono divenuto membro della chiesa, poi ho studiato teologia».


Giovanni Calvino è stato uno dei padri della Riforma del cristianesimo europeo nel Cinquecento: come lo descrive nel suo libro?


«Fu un umanista e giurista prestato alla teologia, doveva lavorare con le parole per chiarire concetti che all’epoca non erano chiari, e forse non lo sono nemmeno oggi. Non fu mai un piacione. Non scrisse per ottenere consensi. Espose il Vangelo. Leggendo la prosa di Calvino, per pagine e pagine non si trova, stilisticamente, una sola parola che sovrabbondi o che manchi. Non per niente è rimasto il simbolo di una fede protestante intensa, oserei dire radicale. L’ossatura della fede cristiana e l’interpretazione della Scrittura, sono queste le cose che interessavano a Calvino».


Ci descriva il suo rapporto con la Scrittura.


«Calvino cerca nel libro un senso in cui non il lettore, ma Dio stesso è protagonista. Nelle parole del Vangelo non sei tu che leggi Dio, ma è Dio che legge te. Né tu, teologo e pastore, né tu, chiesa, sei interprete: siamo tutti interpretati dalla parola, giudicati, perdonati, risuscitati in Cristo».


Quale fu la sua concezione del rapporto tra Stato e Chiesa?


«Calvino combattè fortemente per l’autonomia della chiesa dal potere politico grazie al diritto ecclesiastico. Una chiesa con una propria disciplina giuridicamente stabilita non poteva essere il braccio spirituale del potere secolare. Allo stesso tempo, la società civile manteneva tutte le sue prerogative e non veniva eterodiretta dal potere religioso. La Ginevra di Calvino fu un grande laboratorio di dialettica, talvolta dura, tra Stato e Chiesa. La leggenda di un Calvino dittatore teocratico non trova riscontro nella storia».


Qual è il valore che invece lei dà alla laicità?


«Sono laicamente critico anche nei confronti della laicità. Paesi, per quanto laici, che spendono milioni di euro per la parata militare nel giorno della festa nazionale in realtà rendono culto allo Stato, perciò non sono laici. D’altra parte, nell’ambito delle relazioni giuridiche tra Stati e Chiese, può esservi un riconoscimento legale della libertà e dell’autonomia delle chiese e comunità di fede. Meglio se trattate tutte allo stesso modo, senza particolari privilegi per nessuno. Infine, venendo all’ambito dei rapporti di tipo economico, penso che non dovrebbe esserci alcun passaggio di denaro tra lo Stato e le Chiese, eccezion fatta per la manutenzione del patrimonio artistico. Ovviamente, questo obbligherebbe prima di tutto lo Stato a occuparsi di welfare seriamente, anziché ridurre il sostegno alle fasce deboli con la scusa che tanto ci pensano le istituzioni religiose. Insomma, una laicità che determini la fine di finanziamenti statali alle comunità religiose dovrebbe comportare un ripensamento, in meglio, dello stato sociale».


Il 2017 è stato il cinquecentenario della Riforma protestante: era il 31 ottobre 1517, infatti, quando il frate agostiniano Martin Lutero propose alla pubblica discussione le sue novantacinque tesi…


«La Riforma protestante è stata una grande rialfabetizzazione biblica dell’Occidente, non solo come fatto culturale, ma come dato teologico. Qualsiasi europeo che sapesse leggere aveva la possibilità di leggere il Vangelo direttamente, nella sua lingua, e di impegnarsi in prima persona sul documento fondativo e vivo della sua fede. Cinque secoli fa. Stupendo!».


Oggi cosa consiglierebbe a chi vuole saperne di più?


«Posso consigliare di leggere direttamente i riformatori, soprattutto Lutero e Calvino, tradotti in italiano da diverse case editrici cattoliche e dall’editrice protestante Claudiana. L’approccio diretto con i testi è sempre il migliore. Poi, qualche buona biografia per comprendere il tempo e l’ambiente dell’epoca. C’erano delle grandi differenze rispetto a oggi. Ad esempio, in tutto il sedicesimo secolo l’esecuzione pubblica delle condanne a morte era considerata pedagogica. Oggi a noi il solo pensiero fa orrore. Ma oggi, un uomo del sedicesimo secolo non comprenderebbe come possiamo lasciare degli esseri umani a dormire per la strada senza che la collettività se ne prenda amorevolmente cura».


Pastore protestante ma nella cattolicissima Roma: come si trova?


«Benissimo. Roma è tante cose. Come valdesi, abbiamo buoni rapporti con le istituzioni cattoliche sia a livello di aiuto ai poveri, sia di relazioni con le parrocchie. Spesso sono invitato a iniziative delle altre comunità religiose. Roma è una città tollerante e aperta, scanzonata, disillusa, ma talvolta questo spirito nasconde situazioni disperate. Si vive con una pazienza infinita verso tutti i disservizi, il cui archetipo è naturalmente il romano che aspetta l’autobus che non arriva, con una ironica rassegnazione che, da triestino, all’inizio facevo davvero parecchia fatica a capire. Sul piano calcistico, invece, da vecchio tifoso dell’Unione (conservo ancora una maglietta della Triestina di quel fantastico 1982/83, l’anno della promozione in serie B), onoro un antico gemellaggio tifando per la Lazio».


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