Cassandra che non riesce a vivere bloccata dal suo bambino di pietra

Giovanna Pastega



È come una lama seghettata che taglia, la scrittura di Laudomia Bonanni, non lascia scampo, scarnifica, arriva sino all’osso, ti toglie il respiro. E nel suo romanzo più speculativo e personale, “Il bambino di pietra” del 1979, ristampato ora da Cliquot (pagg. 160, euro 16) a quasi vent’anni dalla morte, questa scrittura si fa paradigma di un modo di intendere la letteratura: «Il libro – diceva la scrittrice aquilana, vincitrice negli anni ’60 del Premio Viareggio e, nel ’64 del premio selezione Campiello - dev’essere come un sasso che si butta per colpire». Ecco allora la protagonista del romanzo, Cassandra, una donna degli anni ’70, che affronta e sviscera senza filtri le ossessioni e le repressioni del suo presente e del suo passato, compiendo con lucidità quasi spietata l’anatomia della sua “nevrosi d’angoscia” (non a caso sottotitolo del romanzo), un dilaniamento esistenziale che la blocca e non le consente, quasi, di vivere. Una nevrosi legata all’educazione, alla sessualità, all’onnipresente fantasma della “maternità”, che Cassandra rifiuta caparbiamente, restandone però inevitabilmente intrappolata. Una donna, in cui il complesso materno negativo, direbbe Young, le ha pietrificato nel cuore un figlio impossibile: «Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra?».

Non figlia, non madre, non donna: se la società non comprende, non permette una definizione diversa, Cassandra resta fuori dai giochi che la vita offre. Ecco allora arrivare la nevrosi, generata da un’impossibile definizione di sé in un mondo, quello degli anni ’70, in cui la rivolta è nell’aria e nelle strade, ma dove ancora grava il soffocante retaggio di una cultura per secoli avversa alla libera identità delle donne. Nel frastuono di un mondo che cambia la protagonista preferisce restare ferma, chiudersi agli altri e alla vita. Inchiodata ai fantasmi del passato e del presente in un conflitto esistenziale profondo, Cassandra chiede aiuto ad uno psicanalista e come in uno specchio inizia a compiere una propria personale analisi di sé e del mondo attraverso la scrittura.

La ricerca di un senso possibile per la propria vita diventa nell’immagine del bambino di pietra - il bambino mai nato, atrofizzato nelle proprie paure – paradigma di una donna ancora “non è nata a se stessa”, che cerca la propria definizione tra spinte di liberazione, retaggi matriarcali e intangibili poteri patriarcali.

In un serratissimo dialogo a tu per tu con la propria identità perduta o forse mai trovata, la protagonista rilegge ma soprattutto riscrive il proprio presente e il proprio passato in un continuo gioco di contrappesi. Ricucire gli strappi, riempire i vuoti, recuperare dai tacet ciò che davvero abbiamo vissuto, diventa così una chiave fondamentale per dissolvere l’angoscia di un presente inquieto e disconnesso: «L’infanzia è un territorio sconosciuto. Anni della vita scomparsi, come se non li avessimo vissuti. A sprazzi la memoria ci ripresenta momenti isolati, luoghi persone impressioni, emersi dall’amnesia (…). Cerco di recuperare qualche filo». Una storia che entra a gamba tesa nel magma liquido dell’interiorità femminile non poteva che partire da una «scrittura convulsa e dolente, ma piena di vita e immaginazione», come l’ha definita Dacia Maraini nella prefazione alla ristampa, «per tornare a farci riflettere sulla condizione femminile». È proprio questa sorta di ruvidità narrativa, che Montale nel ‘49 paragonò a quella del Joyce di Gente di Dublino, il filo conduttore del romanzo che lascia sul piatto più che risposte, molte scomode domande ancora attuali. Dirà infatti Laudomia Bonanni della sua Cassandra: «La protagonista donna è un po’ la protagonista di tutto quello che ho scritto».

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