C’è Francesco De Gregori in “Vivavoce” a Udine «Mi manca Pasolini, però non vivo di rimpianti»
Ricorda molto bene il greto del Tagliamento, «un luogo durissimo, all’apparenza, ma che poi è capace di trasmetterti una tranquillità incredibile». De Gregori, maestro della musica d’autore italiana, torna sempre volentieri in Friuli Venezia Giulia. «Una terra che ho nel cuore», confessa. Salirà sul palco del Castello di Udine il mercoledì 22 alle 21 (grazie a Euritmica) con la sua band, capitanata da Guido Guglielmetti, per il “Vivavoce” tour, che prende il nome dal suo ultimo album: un doppio certificato disco di platino, con 28 brani della sua storia rivisitati con arrangiamenti inediti.
All’Arena di Verona, il 22 settembre, Francesco sarà protagonista di un evento straordinario: i festeggiamenti in musica dei 40 anni di “Rimmel”, l’amatissimo disco del 1975. Ospiti della serata, per omaggiare le sue canzoni, Malika Ayane, Caparezza, Elisa, Fedez, Giuliano Sangiorgi, Checco Zalone, Fausto Leali, Ambrogio Sparagna, L’Orage.
De Gregori è uscito anche nel nuovo libro-autoritratto “Francesco De Gregori, Guarda che non sono io” (SVpress) di Silvia Viglietti e Alessandro Arianti, che racchiude, attraverso immagini e parole, la sua vicenda artistica. Tra le foto, anche uno scatto di Francesco sul Tagliamento nel ‘96, dal backstage del videoclip “L’agnello di Dio”.
Come è nata l’idea dell’evento a Verona per i 40 anni di Rimmel?
«Tendo a dimenticarmi dei miei compleanni anagrafici. Poi arriva qualcuno e mi dice, sai che tra una settimana è il tuo compleanno? Anche in questo caso qualcuno me l’ha ricordato, dicendo che bisognava festeggiarlo. Ho detto sì, una cifra tonda va festeggiata. Così mi è venuta l’idea di riunire una serie di artisti che stimo e di catapultarli all’Arena di Verona».
Che aspettative ha?
«L’idea è creare un “pastiche musicale”, dove gli stili molto diversi si fondano, si sovrappongano. Tra Fedez e Fausto Leali ci passa una vita. Però, voglio vedere che succede. E poi, Rimmel è stato un disco di contaminazioni musicali. Vorrei riprovare a contaminare ancora la mia musica».
Confrontandosi con le nuove generazioni di artisti si è mai sentito un gigante tra i nani?
«Assolutamente no. Non mi sento né un gigante tra i nani, né un nano tra i giganti. Mi sento uno che fa lo stesso mestiere. L’arte accomuna, al di là del fatto che uno possa avere più successo di un altro o meno, o che sia più giovane o più vecchio, più brutto o più bello».
Tra i tanti sodalizi artistici, quale ricorda oggi con più affetto?
«L’altro ieri ero a Bologna, quindi mi è difficile oggi non parlarle di Lucio Dalla. Nel 2010 e 2011 abbiamo fatto due anni di lavoro meraviglioso insieme, con un incrocio d’intelligenza e musicalità. Quindi potrei anche dirle che mi manca».
Com’è arrivato il nuovo libro autobiografico?
«La formazione è atipica, si è conglomerato da solo. L’idea è partita da Alessandro Arianti, un bravissimo ragazzo della mia band con una grande passione per la fotografia. Ha cominciato a raccogliere materiale fotografico su di me e alla fine mi ha proposto di farne un libro. Ho pensato, perché no? E poi gli ho dato un contributo mio, fornendo vecchie foto tirate fuori dai cassetti e ricompilando una serie di mie interviste».
Ha scritto nel 1985 la canzone “A Pa”, dedicata a Pasolini. Quanto manca all’Italia una figura di intellettuale come questa?
«Gli intellettuali ci mancano tutti, anche Benedetto Croce. È chiaro che la figura di Pasolini è stata molto importante, controversa, sofferente sul piano umano. E questo ce lo fa amare ancora di più. Ma credo che dovremmo occuparci degli intellettuali d’oggi, non possiamo solo continuare a rimpiangere quelli che sono morti. Lo dico con tutto il mio affetto, la mia passione e i miei debiti culturali nei confronti di Pasolini».
Quali obiettivi aveva per Vivavoce?
«Volevo che le canzoni, quelle famose e anche le meno note, suonassero in modo piacevole e contemporaneo, tirandole un po’ fuori dal suono inevitabilmente datato del periodo in cui erano state incise, e restituendo loro il suono che hanno dal vivo, con la cura della sala di registrazione».
C’è anche “Stelutis Alpinis”, brano della tradizione popolare friulana tradotto in italiano. Perché?
«La conoscevo da bambino perché me la cantava mio padre, che era stato alpino, durante le gite in montagna. Non capivo le parole, ma ho avuto sempre il pallino di tradurla. Ci sono riuscito e ne sono contento: così se la possono godere anche i non friulani: è talmente bella che devono poterla cantare a Reggio Calabria».
Alberto Rochira
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