Che guaio se la “Benevolenza cosmica” prende di mira il fortunatissimo Kurt

Il divertente esordio per Adelphi di Fabio Bacà, metafora dei nostri rapporti con gli altri



A Kurt O’Reilly va tutto bene. Anzi non proprio. In una Londra frenetica Kurt, giovane professionista di origini italiane a dispetto del nome, lavora in un istituto di statistica. Si occupa di analizzare i numeri della vita, le probabilità che una tal cosa accada o meno, insomma l’esistenza di ognuno filtrata dai numeri. È sposato con Liz, una scrittrice che va in giro a rubare, letteralmente, le vite degli altri per farne i personaggi delle sue storie. Il loro rapporto è un po’ altalenante, nel senso che vivono in due appartamenti separati, uno sopra l’altro. Da qualche tempo, cinque mesi per l’esattezza, Kurt è afflitto da una sorta di angoscia strisciante. Si è accorto, infatti, che gli va tutto bene. Nel senso che non c’è situazione, per quanto piccola e insignificante, o al contrario drammatica e pressante, che non si rivolga in suo favore. Scopre ad esempio che le macchioline che ha in un occhio nel novantasei per cento dei casi sono sintomi di un tumore incurabile. Ma lui, gli dice il medico, rientra in quel quattro per cento che la fa franca. Poi capita nel bel mezzo di una rapina, affronta il bandito armato di fucile, questo gli spara ma l’arma si inceppa e lui lo stende con un pugno. Insomma è innegabile: su Kurt incombe una vera “Benevolenza cosmica” (Adeplhi, pagg. 225, euro 18,00), come titola il romanzo d’esordio di Fabio Bacà, nelle cui pagine Kurt racconta le sue avventure. Il punto è che questa benevolenza cosmica getta Kurt nella depressione. Perché non è la prima volta che gli succede. Anni prima suo fratello Simon è morto in un assurdo incidente, colpito alla testa dalla ruota che si era staccata da un aeroplano in sorvolo: «È una delle centoventiquattro persone uccise da un oggetto precipitato accidentalmente da un aereo civile dal primo volo dei fratelli Wright». Dalla morte del fratello, dal modo in cui è successo, Kurt è assillato dalla paura: «Il punto - ricorda - era che le disgrazie capitavano regolarmente a qualcun altro. Tanto che sempre più spesso, rannicchiato alla fine del giorno nel tepore confortevole del mio letto, mi capitava di chiedermi come avessi fatto a evitare di nuovo le migliaia di sventure che sembravano colpire chiunque tranne me. Era senso di colpa, il mio? Il retaggio di un indottrinamento religioso protervo e afflittivo?».

Ora il timore si ripete, tanto che Kurt decide di rivolgersi a medici, psicologi, psicoterapeuti e persino chiromanti pur di venire a capo di tanta disgrazia: «Non voglio vivere una vita in cui mi sia proibito di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d’ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose: sensazioni a cui dovrebbe accedere ogni essere umano, se vuole ancora considerarsi tale». Finché un’improbabile psicoterapeuta scavando nella memoria trova la ragione nel racconto di un uomo incontrato in un villaggio dell’India che aveva lo stesso problema: «Secondo le sue credenze religiose, a un periodo così lungo e ininterrotto di prosperità doveva necessariamente corrispondere un periodo speculare di sfortuna a carico di uno specifico essere umano, legato karmicamente a lui in virtù di chissà quali precedenti incarnazioni. Qualcuno che doveva trovare a ogni costo, prima che gli opposti eccessi fossero fatali a entrambi». Così Kurt si mette alla frenetica caccia del suo alter ego sfortunato. E alla fine lo troverà, in un finale a sorpresa che dà nuovo senso al romanzo, facendo del felice, surreale e stilisticamente fastoso esordio di Fabio Bacà una metafora di quelli che sono i nostri rapporti con l’altro. E con la continuità di ogni esistenza, soprattutto quelle da noi generate. —

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