Con Liza E. Anzen anche i manga parlano l’italiano

Sogni e magia in un fantasy scritto a quattro mani dalla triestina Elena Zanzi con Federica Di Meo
Di Maria Cristina Vilardo

«Gli ingranaggi per la mente. Un fiore per il cuore. Un corpo per l’essenza più profonda. Un cristallo per creare il legame magico. Un segreto per cambiare il destino». Poche parole per iniziare, ed è subito chiaro che il manga “Somnia - Artefici di sogni” vuol profilarsi come una storia intrigante e fascinosa, che è stata valutata a metà tra il fantasy e lo steampunk. L’ha creata Liza E. Anzen con la disegnatrice Federica Di Meo per la collana Planet Manga della Panini Comics. Liza E. Anzen è il nome d’arte di Elena Zanzi, classe ’78, triestina di nascita ma bolognese di adozione, che dal 2004 lavora come editor alla Panini Comics di Modena.

«La storia - spiega - ruota attorno a degli oggetti creati dalla Corporazione dei Creatori. Si chiamano Somnia e hanno la capacità di avverare i desideri. Chi ha un desiderio che vuole a tutti i costi veder avverato va alla Corporazione dei Creatori, lo esprime e si fa costruire un Somnia, che funzionerà unicamente per lui. La protagonista, Myra Rever, entra nella Corporazione dei Creatori per diventare un creatore anche lei. C’è un cast molto ricco di personaggi, perché il manga è sì incentrato su di lei, ma allo stesso tempo è corale. E ognuno di loro esprime una propria voce sulla magia».

Dando quale sapore alla storia?

«Volevamo a tutti i costi entrare nelle radici della magia, e non darla per assodata. Ed è per approfondire questo aspetto che esiste il romanzo, “Somnia - La notte dei nove desideri”. Sarà una chiave di lettura anche per la Serie 2, che arriverà in fumetteria a metà 2015, sempre in quattro volumi, ambientati temporalmente dopo la prima serie. Parlerà soprattutto del mondo dei Somnia Neri, dei desideri proibiti. L’icona dei Creatori Neri è come il simbolo della Corporazione, spezzato però in un punto, e nella prima immagine a colori realizzata a tema vi abbiamo inserito un serpente che si avvolge attorno, a indicare questo lato un po’ dark della seconda serie. C’era tutta una parte di storia che volevamo raccontare, e lo faremo fosse anche per un solo lettore...».

Saranno sicuramente di più.

«Sono di più perché abbiamo una pagina Facebook, www.facebook.com/artofsomnia, in cui i lettori ci scrivono. Hanno anche fondato, sempre su Facebook, il Somnia Fans Club, in cui ci chiedono di tutto, persino di scrivergli parti di storia speciali perché vogliono più dettagli sul rapporto tra questi o quei personaggi. Adesso io sto scrivendo il racconto di Natale come regalo per i lettori. Dal 15 dicembre avranno ogni giorno una puntata sulla nostra pagina Facebook, fino al giorno di Natale».

Cosa rende “Somnia” un fantasy?

«Il motivo per cui ci piace il fantasy è che consente, rispetto ad altri generi, di pensare senza limiti. Tutto può accadere... è fantasy! È la tua sfida contro te stesso. Ti rendi conto che se la storia non va avanti è perché il tuo modo di pensare si è limitato».

E il tocco steampunk come si riconosce?

«Il termine steampunk, per farla breve, indica un'ambientazione in cui la tecnologia è basata sulla forza del vapore, oltre ad altre caratteristiche. Ho la sensazione che sia diventato quasi un’estetica, al di là del genere letterario o fumettistico, fondata sul tema dell’ingranaggio, dell’ottone, del cilindro e tanto altro. La nostra opera spesso viene definita steampunk perché i Somnia sono una fusione di magia e di meccanica».

Viene anche classificata come “manga”.

«In Giappone quando dicono “manga” intendono semplicemente fumetto. E fumetto, per loro, è qualsiasi cosa. Non fanno tanta differenza, come noi, tra questo o quello stile di disegno. Loro hanno tantissimi tipi di produzione, quello che giunge a noi in Italia è solo la minima parte. Per loro il fumetto è un fenomeno molto più esteso, abbraccia tutta la vita di una persona, per fasce di età e per sesso».

Ma esiste una caratteristica di fondo nei manga?

«Sì, perché il fumetto giapponese è basato sulla capacità di realizzare l’empatia con il lettore, e questo passa molto attraverso lo sguardo. Anche il balloon spesso si deforma per dare l’idea del sentimento, delle emozioni, per suggerire l’umore, il tono di voce. Se il tono dev’essere glaciale, ci sono addirittura le stalattiti sul balloon. Il fumetto giapponese ha sviluppato tutta una serie di artifici grafici per poterci comunicare il sentimento. Per loro l’importante non è il realismo, quindi anche le proporzioni e l’anatomia si deformano sul peso di questa esigenza narrativa».

Frush, flip, chack, trump, gneeck... sono singolari le onomatopee.

«È una caratteristica del fumetto giapponese assegnare un ruolo grafico rilevante alle onomatopee, perché il rumore, il movimento, lo sguardo sono ciò che ti fa identificare con il personaggio, te lo fa vivere sulla tua pelle. Significa che spesso sono fatte a mano dall’autore, magari ci sono disegnate sopra delle cose. Sono parti artistiche della tavola, e non sono scritte sempre con lo stesso stile, cambia la grafica, così rumori diversi hanno effetti diversi. Questo rende il fumetto molto cinematografico, ed è anche nelle corde mie e di Federica raccontare così».

Crede nel destino?

«Sì ma, come dico nel fumetto, il destino uno un po’ se lo fa da sé, è più una direzione. Quando ho finito l’università, pensavo molto spesso ai modi per investire bene la laurea in Lettere. Una volta ho sentito una canzone, “Shadow Of The Moon” dei Blackmore’s Night. È una di quelle canzoni che mi faceva ricordare un po’ di me stessa, di quello che volevo fare veramente nella vita».

E cosa voleva fare?

«Mi sono detta: “Io voglio lavorare in una casa editrice”. E siccome tutti avevano questa costante ossessione di dirmi che la vita è difficile, e non ne potevo più, allora per sfida rispondevo: “No, sarà semplicissimo trovare lavoro in una casa editrice”. E poi penso che se vuoi fare una cosa, prima devi crederci. Invece la maggioranza delle persone crede solo a metà nella possibilità di avverare i propri desideri».

Perché il nome d’arte?

«Sin da piccola desideravo averne uno. Il nome d’arte racchiude in sé questa incredibile tentazione di scegliersi un nome. Allo stesso tempo io amo molto il mio nome, però volevo anche staccare quello che faccio come autore da quello che faccio come editor. Alla fine è diventato un anagramma delle lettere del mio nome. Mi piaceva la sonorità, che evoca un po’ la storia e i nomi dei personaggi di “Somnia”».

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