Con l’uccisione di Kennedy debutta in Italia Lou Berney il nuovo maestro del thriller

Lo scrittore e sceneggiatore in tour per presentare il suo romanzo “November road” edito da HarperCollins: «C’è sempre un forte legame tra l’autore e la sua storia» 

l’intervista



Stephen King l’ha salutato così: «Quando i lettori dicono che vogliono leggere un romanzo davvero buono, intendono questo. Eccezionale». Il romanzo è “November road” (HarperCollins, pagg. 347, euro 18), un crime thriller ritmatissimo, la fuga di un criminale dalla Storia con la s maiuscola, ma anche dalla sua stessa vita.

L’autore è l’americano Lou Berney, scrittore, sceneggiatore e docente universitario, classe 1964. Berney è autore di altri tre romanzi, tra cui il pluripremiato “The Long and Faraway Gone”. In “November road” l’assassinio di John F. Kennedy diviene il pretesto di una caccia all’uomo. Il braccato è Guidry, membro della mafia di New Orleans, ben consapevole che tutti sono sacrificabili per mantenere un segreto. Lou Berney è in Italia per un tour che l’ha portato da Milano a Mestre: «Non è la prima volta che volo fino in Italia - puntualizza -. Prima però l’ho sempre fatto da turista. Sono stato a Roma, Siena, Firenze, ma è la prima volta che visito il nord».

“November road” è un giallo totalmente visionario, il lettore segue passo a passo la fuga di Guidry, vediamo tutto, persone, paesaggi, omicidi. Lei è nato prima come romanziere o sceneggiatore?

«Ho iniziato come romanziere - risponde lo scrittore -. Poi però ho iniziato a scrivere anche sceneggiature. A un certo punto i due piani si sono un po’ fusi influenzandosi a vicenda e quindi naturalmente hanno preso un’altra strada rispetto ai miei precedenti scritti».

Tra l’altro il libro è stato opzionato per diventare un film, diretto da Lawrence Kasdan, il regista de “Il grande freddo”, di “Star Wars”. Che aspettative ha?

«Siccome ho lavorato a Hollywood come sceneggiatore, ho imparato che in questi casi è meglio tenere un profilo basso, tutto può cambiare da un momento all’altro. Detto ciò sono speranzoso ovviamente, anche perché le cose si stanno muovendo. Il sogno segreto è di poter avere un ruolo da comparsa nel film, di fare la parte del mafioso con un bel vestito doppio petto a righe. Poi certo Kasdan è un grande regista, oltre che essere un ottimo scrittore».

Il suo romanzo include un contesto storico, l’assassinio Kennedy, ma anche esistenziale, voglio dire che la fuga del protagonista pare anche una fuga dalla sua precedente identità…

«Era mia intenzione fin dall’inizio quella di rappresentare il viaggio emotivo dei personaggi, non solo ciò che accade in quel preciso momento storico. Il mio scopo era appunto che gli eventi tragici di quell’epoca avessero un impatto emotivo sui personaggi, così come i personaggi a loro volta hanno un impatto sulla società. Non a caso – nel libro se ne fa riferimento in diverse occasioni – uno dei testi che mi ha principalmente influenzato è l’“Inferno” di Dante. Sono sempre stato attratto da questa idea di un passaggio, di una crescita dal male al bene. Spero di averlo rappresentato in qualche modo: cioè che ai miei protagonisti fosse concesso quel tipo di cambiamento. O almeno di tentarci».

Ha anche evidenziato quanta forza ci volesse per andare contro le regole sociali che confinavano il ruolo della donna a moglie e madre. Charlotte è un personaggio straordinario, pare ispirata dalla realtà. Com’è nata?

«Sì è assolutamente vero perché la figura da cui ho tratto ispirazione è quella di mia madre, una donna che ha avuto una vita molto difficile. È nata e cresciuta in povertà, ma era forte, intelligente e resiliente e queste sono le caratteristiche che ho trasferito in Charlotte. Non era facile, appunto, essere una donna negli anni ’50, quindi mantenersi forte nonostante le difficoltà non era così diffuso».

King ha scritto che un romanzo ha bisogno di fondamenta solide e con ciò intendeva che ci deve essere una parte realmente vissuta e sentita dall’autore. È d’accordo?

«Assolutamente sì. Ci deve essere un forte legame tra l’autore e la sua storia. Non si può scrivere solo per soldi o per fama. Ci deve essere sempre una sorta di innamoramento con ciò che si vuole raccontare e ciò implica basi solide, reali».

Colpisce poi un altro protagonista, Barone. Può esistere davvero un killer così spietato?

«Oh sì. Io ne ho conosciuti parecchi. Magari non erano necessariamente degli assassini, ma dirigenti d’azienda, di grandi compagnie…»

Tutto il libro pare dirci che c’è un momento, nella vita, in cui bisogna scegliere un destino, distruggendo tutti gli altri ipotetici futuri. È così?

«Credo che sia la domanda centrale: possiamo in qualche maniera essere artefici del nostro destino? Secondo me sì, ma la faccenda non è a basso costo. Lo si può fare, ma tenendo presente che il prezzo sarà molto alto».

Come in un film di Sergio Leone, il suo romanzo si alimenta di “tradimento”. Che parte ha nelle nostre vite?

«Credo che il libro sia costruito su quest’idea: cos’è che davvero ci sta a cuore? Cos’è che conta e che non potremmo mai tradire? Prendiamo per esempio il personaggio di Charlotte, nel suo caso sono le figlie, lei è pronta a dare la vita per le figlie. Non per gli amici. Non per il marito che tradisce con Frank Guidry. E lo stesso Frank invece è abituato a tradire, non è mai stato chiaro nella sua vita e per una volta deve prendere una decisione. In ogni caso il tradimento esisterà sempre, rappresenta la tentazione stessa».

Sta lavorando a qualcosa di nuovo?

«Sì ma non ne parlo. Sono superstizioso». —

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