Covacich: «Noi scrittori triestini pratichiamo l’italiano da intrusi»
sveviani, approfondimenti su lingua, cultura e senso dell’umorismo dello scrittore

TRIESTE. “Noi scrittori triestini abbiamo trovato casa in questa lingua e tuttavia, mentre scriviamo, c’è sempre una vocina a ricordarci che non siamo a casa nostra, che pratichiamo l’italiano da intrusi.
È casa tua e non è casa tua, dice la vocina. Ecco cosa succede a uno scrittore che elegge come propria la lingua che ha acquisito: viene giocato dalle sue parole, viene parlato da ciò che dice”.
La riflessione è di Mauro Covacich e si trova all’interno dell’ultimo numero, il tredicesimo della raccolta, della rivista ‘Aghios’, i Quaderni di studi sveviani diretti da Giuseppe A. Camerino ed Elvio Guagnini (Campanotto Editore, 111 pagg., 15 euro).
Covacich, invitato a porre lo sguardo di uno scrittore di oggi su Svevo, si interroga sul problema che incontra colui il quale, avendo come prima lingua il dialetto, deve elaborare i suoi pensieri usando una lingua imparata a scuola. Come fosse, e in parte lo è, una lingua straniera. È lo stesso problema che era capitato a Svevo, come è capitato a Covacich e come capita a quasi tutti i triestini.
Ma non solo, ci sono altri scrittori che lamentano un sentimento di non appartenenza con la lingua in cui scrivono.James Joyce, che in famiglia parlava una versione moderna del gaelico, con l’inglese; John Maxwell Coetzee, il premio Nobel sudafricano (lo vinse nel 1982) cresciuto parlando l’afrikaans; Franz Kafka con il tedesco.
Pertanto, conclude Covacich, noi scrittori che usiamo per mestiere una lingua che non è la nostra “anche quando raccontiamo la nostra vita diamo forma a una autobiografia altrui”.
La rivista propone inoltre alcuni interventi tratti dal seminario che si è svolto lo scorso settembre in webinar organizzato dall'Università di Trieste e dall'Università del Salento (le due sedi della redazione della rivista), e che aveva per tema il sapere enciclopedico su cui Svevo ha costruito la sua cultura e le sue opere. Sono tante infatti le linee ancora da indagare per mettere a fuoco l'ampiezza e la varietà degli interessi intellettuali e artistici dell'autore della "Coscienza".
Nel webinar hanno portato contributi Sergia Adamo, per l'introduzione al tema, e poi Elvio Guagnini, Paolo Giovannetti, Donatella Nisi, Luca Mendrino, Gianni Cimador, Carmine Di Biase.
Elvio Guagnini in particolare sceglie di soffermarsi sul racconto di esordio di Svevo, ‘Una lotta’, apparso a puntate sull’Indipendente nel 1888 e firmato con lo pseudonimo di Ettore Samigli, che Svevo avrebbe utilizzato fino al 1892. Qui si scorge la presenza di tratti riconducibili alla sfera del comico e del grottesco, proprio quelli che colorano alcune scene della ‘Coscienza’ e che hanno fatto parlare critici come Walter Pedullà di ‘comicità sveviana’. Che l’industriale-romanziere fosse anche un burlone che amava gli scherzi lo testimoniava, come ricorda Guagnini, la figlia Letizia.
Svevo amava scherzare su tutto, anche sulla religione e Guagnini, rammemorando le confidenze fattegli da Letizia, riporta che Svevo aveva l’abitudine di leggeva a casa alcune pagine dei suoi scritti “ridendo e magari commentando la lettura con una frase in dialetto “fioi mii, che rider”.
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