Covid sullo schermo, così Segre racconta un’edizione straordinaria

Marco Contino

Marco Contino / venezia

C’è una folla di spettatori accomodati su profonde poltrone di vimini nell’arena all’aperto del Lido di Venezia durante uno spettacolo della Mostra del Cinema. All’improvviso, su questa immagine in bianco e nero (in realtà un pannello fotografico), irrompono figure quasi aliene. Due uomini protetti da tute bianche anticontaminazione, cappuccio, mascherine e pistole igienizzanti collegate a serbatoi di soluzione disinfettante. È la prima sequenza del diario filmato da Andrea Segre – La Biennale di Venezia: il Cinema al tempo del Covid – che, proprio in quell’arena che ora ha preso il nome di Sala Darsena, ha alzato ieri il primo sipario della Mostra come titolo in preapertura. Una speciale dedica e riflessione su quella esperienza storica che è stata la Mostra del 2020, il dietro le quinte della più drammatica e straordinaria edizione di sempre. Il regista padovano (che già l’anno scorso con “Molecole” aveva pre-inaugurato l’evento veneziano) si muove lungo due binari. Quello delle immagini di un passato glorioso (con i repertori filmici dell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee e dell’Istituto Luce) caratterizzato da bagni di folla, divi e personaggi (come Winston Churcill mentre fa il bagno sulla spiaggia dell’Excelsior), e quello dello scorso anno quando la Mostra fu il primo evento internazionale a fronteggiare, con misure straordinarie, una emergenza sanitaria globale. Agli assembramenti di allora si contrappongono le testimonianze di lavoratori, fotografi, maschere, giovani critici e spettatori dell’edizione 2020. Plotoni di addetti alla disinfezione vengono immortalati mentre igienizzano poltrone, braccioli e maniglie o sterilizzano la Sala Grande: spesso esausti dai turni e dalle proiezioni ravvicinate. I fotografi raccontano la difficoltà di uno scatto di gruppo con la regola del distanziamento, gli amanti del cinema rimpiangono i “vecchi tempi”. Ma non tutti. Dal documentario emerge una sorta di dislivello generazionale, quasi un banco di prova evolutivo della capacità di adattamento. Soprattutto i più giovani, forse più inclini al soliloquio dell’era social, ammettono di aver spesso percepito una sala piena e rumorosa come un “fastidio”, preferendo il maggiore isolamento nella visione. Che ad alcuni, invece, manca nella sua accezione più collettiva ed empatica. Anche se alla fine, sulle note di Strauss, sembra prevalere un forte desiderio di liberazione, con i protagonisti che, con un gesto rivoluzionario, scoprono il volto dalla mascherina. Oggi, a distanza di un anno, non è ancora arrivato quel momento ma quello dei ringraziamenti, con un appassionato elogio della resilienza, sì: il film si chiude con una didascalia a firma della Biennale che ringrazia tutti coloro che hanno reso possibile la Mostra più straordinaria di sempre. —

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