Dalle metropoli alla provincia è la fine dell’elegia americana

«Che ve ne sembra dell’America?». Era stato Elio Vittorini, nel 1940, a trovare questo titolo brillante per fare pubblicare alla Mondadori una raccolta di racconti di William Saroyan, già allora...
Yellow cab in 45th Street New York
Yellow cab in 45th Street New York
«Che ve ne sembra dell’America?». Era stato Elio Vittorini, nel 1940, a trovare questo titolo brillante per fare pubblicare alla Mondadori una raccolta di racconti di William Saroyan, già allora scrittore famoso negli Usa. E fare scoprire così ai lettori italiani quanti volti avesse quel grande paese, miscela di razze, culture, abitudini e tensioni convergenti, pur tra conflitti e lacerazioni. Molte Americhe nell’America, raccontava Saroyan, origini armene, nascita e vita californiane. Il ritratto è ancora attuale. Le metropoli e le piccole città di provincia. Gli intellettuali spregiudicati, gli imprenditori rampanti, i contadini radicati nelle tradizioni. Indispensabile entrare tra le righe dei suoi scrittori, per capire meglio. Cominciando da New York, con l’ultimo romanzo di
Jay McInerney, “La luce dei giorni”
(Bompiani, pagg. 511, euro 20,00)
. I protagonisti sono Corinne e Russel Calloway, editore lui, generosa volontaria in cause sociali lei. Una bella casa a TriBeCa, quartiere d’artisti. Amici di buone maniere e solide letture. Benessere anche se non ricchezza. I figli al college, l’estate negli Hamptons. La sofisticata cultura cosmopolita “di questi newyorkesi spocchiosi e iperistruiti”. Ma, comunque, l’ansia dei soldi, misura di tutta una vita. McInerney mette in scena, maestro come sempre, una straordinaria commedia umana, dando ai personaggi intensità e spessore. Gioca con le speranze e le illusioni. Smonta e rimonta con ironia il “sogno americano”. E non cela mai, dietro il successo, la malinconia: Corinne “sa che più tardi non sarà la festa che ricorderà, bensì questa passeggiata con il marito nella frizzante aria autunnale, immersa nella giallognola luce metropolitana che si riversa da migliaia di finestre, questo momento sospeso durante cui si pregusta l’arrivo”.


Provincia, adesso. A Jackson, Mississipi, tra i ruggenti Anni Venti e la Grande Depressione. Dove torna con la mente e il cuore
Richard Ford
, grande romanziere, per scrivere, in
“Tra loro”
(Feltrinelli, pagg. 144, euro 15,00)
la storia di suo padre Parker e di sua madre Edna. Commesso viaggiatore lui, casalinga lei. Innamorati. Ma costretti a interrompere l’abitudine di viaggiare sempre insieme, nelle regioni del Sud degli Usa, quando nasce Richard, amatissimo da entrambi i genitori. Una piccola frattura s’insinua nella vita familiare. I vincoli della maternità e poi della scuola del bambino costruiscono nuovi, più difficili equilibri. Nulla succede, se non la vita. Che Ford ricostruisce con l’occhio critico e affettuoso d’un figlio che, senza ombra di sentimentalismo, mette in pagina passioni, ambizioni sociali, malesseri, compromessi, atti d’amore. Sapendo che “entrare nel passato è un’operazione incerta, dal momento che il passato cerca sempre, riuscendoci però solo a metà, di fare di noi quello che siamo”.


Ancora provincia. In un’immaginaria Grouse County, pieno Midwest, Iowa, dove
Tom Drury
ambienta
“La fine dei vandalismi”
(NN Editore, pagg. 392, euro 19,00)
, primo romanzo d’una trilogia (con una nota speciale del traduttore, Gianni Pannofino: buona idea d’una casa editrice innovativa, che s’è già affermata facendo conoscere ai lettori italiani un altro straordinario autore americano, Kent Haruf, con le sue vicende di Holt, un successo di pubblico e critica). Vita quotidiana, storie minute. Di Dan Norman, sceriffo e di Louise Darling, fotografa, donna inquieta in cerca di stabilità. Di Tiny, l’ex marito di Louise, prepotente e imbroglione. E di una miriade di altri personaggi che lavorano, amano, consumano amicizie e speranze, fanno scorrere il tempo. Perdenti. E persone che con fatica continuano a vivere. Solitudini da sopportare. E famiglie da ricomporre. Comunità di ripicche e generosità. Piccola città. Dove “la Contea lancia un programma per promuovere la calma e gli atteggiamenti civili tra gli impiegati pubblici”.


Si resta in provincia, ma indietro nel tempo. Con
“Il potere del cane”
di
Thomas Savage (Neri Pozza
, pagg. 303, euro 17,00)
. Montana, 1924. L’epopea della conquista del West è appena finita, la tradizione dei cow boys a cavallo viene sconvolta dalla modernità delle prime auto. Anche lì, nel ranch dei fratelli Phil e George Burbank, che si estende a perdita d’occhio nella valle sotto una collina a forma di cane in corsa. Potente e acuto, Phil. Remissivo e silenzioso, George. Molto diversi, ma sempre d’accordo, tra la terra, l’allevamento e la vendita delle mandrie. Finché George s’innamora d’una vedova, Rose Gordon e la porta a vivere con sé, nel ranch, insieme al figlio George. Ma non è luogo di famiglia, casa dei Burbank. Phil vive l’amore del fratello come un tradimento. E tutto precipita, tra odio, persecuzione, violenza. Le tradizioni sono rotte. I sentimenti si frantumano. L’omosessualità latente del capo branco Phil lacera anime e corpi. L’invidia sociale dei nuovi arrivati esaspera i conflitti.


È finita, l’elegia americana. Ed è merito dei buoni libri, come quello di Savage (pubblicato nel 1967 e riscoperto di recente negli Usa) svelare di quanta durezza sia intessuto “il western” e quanto tagliente sia la consapevolezza del peso di emozioni e interessi in cambiamento. Buona lezione anche per oggi.


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