Daniela Mazzucato in un campiello “familiare”

Innanzi tutto una curiosità: Daniela Mazzucato è nata e, fino ai 21 anni, è vissuta in un campiello. Ma quella che più conta è un'altra considerazione che nulla ha a che fare con la venezianità del soprano: con "Il campiello" di Ermanno Wolf-Ferrari, che debutta giovedì al teatro Verdi di Trieste per andare avanti fino al 19 dello stesso mese, la Mazzucato ha una lunga frequentazione.
Poterla avere nell'opera, nel ruolo di Gasparina, è, quindi, una garanzia o quasi: «Con "Il campiello" ho un rapporto di vecchia data - racconta - avendolo affrontato, ma nel ruolo di Gnese, per la prima volta a Roma, quand'ero ragazzina. Ma naturalmente, fra i tanti, ricordo quello bellissimo, dei primi anni Novanta, al Verdi di Trieste: un'esecuzione diretta dal maestro Bareza con una compagnia molto buona tra cui tengo a ricordare Giusy Devinu, prematuramente scomparsa. Per fortuna, quella splendida edizione dell'opera è stata registrata».
Da giovedì, al Verdi, a dirigere, ci sarà Francesco Cilluffo; la regia è di Leo Muscato mentre le scene e i costumi sono firmati, rispettivamente, da Tiziano Santi e Silvia Aymonino. Il cavalier Astolfi sarà Clemente Antonio Daliotti in un cast che, tra gli altri, vede impegnato Max Renè Cosotti (marito, nella vita, della Mazzucato) nel ruolo di Dona Cate Panciana. E, altra curiosità, sul palco vedremo pure Myriam, figlia di Daniela e Max, in un "Campiello", quindi, dal sapore familiare. «Nel campiello c'è una trattoria e la cuoca è nostra figlia» chiosa la Mazzucato.
Sembra, quindi, non mancheranno le sorprese...
«Il regista, giovane ma già molto preparato, è autore di un'operazione intelligente, motivata. Ha ambientato il primo atto all'epoca di Goldoni (da cui il lavoro di Wolf-Ferrari è tratto), il secondo nel 1936 (in riferimento alla prima rappresentazione dell'opera), e il terzo ai giorni nostri o quasi. Il pubblico troverà un campiello vero e proprio e ne potrà osservare, conoscere i cambiamenti legati al passar del tempo e ai personaggi dell'opera».
Cosa pensa dell'idea del nuovo sovrintendente del Verdi, Stefano Pace, di voler ripristinare il Festival dell'operetta?
«Mi auguro che ci riesca, che possa dare impulso a un genere che ha bisogno di rifiorire. Il festival era una particolarità di Trieste, un suo fiore all'occhiello: potendo disporre di coro e orchestra di valore, di personaggi (penso a Gino Landi) che al festival hanno dato lustro, aveva catturato l'interesse del pubblico che, non a caso, faceva la fila alle 4 del mattino pur di avere i biglietti per i suoi spettacoli. Mi rendo conto che l'operetta costa molto, forse più dell'opera lirica ma, se al pubblico si deve sempre dare qualità, non è sempre detto che la qualità debba avere costi enormi. E, nel dover far bene le cose, vanno chiesti sacrifici a tutti, a cominciare dagli artisti».
Come giudica il lavoro del suo predecessore, Claudio Orazi?
«So che ha fatto un buon lavoro, da commissario prima e da sovrintendente poi, per rimettere in piedi un teatro che soffriva un po'. Ma non ho elementi per poter esprimere un giudizio preciso sul suo operato».
Da tre anni vive a Trieste. Come si trova?
«Benissimo. Mio marito è un po' un camaleonte, sta bene ovunque; io, invece, sono un po' "un orsetto" ma a Trieste mi sto ambientando alla grande. È meravigliosa: l'abbiamo conosciuta per motivi di lavoro, e, per fortuna, a cantare a Trieste siamo venuti più volte. Abitiamo in centro. Facciamo due passi e siamo in piazza Unità: poche piazze sono altrettanto belle. E poi basta prender l'auto, andare sul Carso: un paesaggio splendido».
Progetti?
«Per lo più legati all'insegnamento. Vorrei trasmettere a qualche giovane la mia esperienza. Faccio dei master e, probabilmente, ne farò uno a Trieste, nella prima metà di agosto. Sul palco, poi, vorrei fare ancora qualcosa di importante, specie per quanto riguarda il '900. E spero davvero di poter realizzare tali progetti. Magari a Trieste».
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