Danilo Dolci, il non violento che amava “piantare uomini”

Una biografia dello storico Giuseppe Casarrubea pubblicata da Castelvecchi racconta il poeta, educatore, attivista antimafia nato a Sesana cent’anni fa
Di Alessandro Mezzena Lona

Era bastato un tema, uno solo. Forse il primo scritto a scuola. Per far capire a Danilo Dolci che lì, dentro quelle aule, non si puntava a educare i ragazzi a entrare nella vita sviluppando la fantasia, imparando a scoprire i propri talenti. Perché agli insegnanti importava solo allevare un piccolo esercito di allievi ubbidienti. Era successo, infatti, che lui scrivesse una frase molto immaginifica: «Si sentiva un caldo odore di terra». E che il maestro la cancellasse con un imperioso tratto di matita rossa.

Un piccolo insegnamento, certo. Ma da allora, Danilo Dolci ha preferito aggrapparsi ai ricordi dell’infanzia vissuta in famiglia. Libera, piena di stimoli e di curiosità, per niente inquadrata dentro schemi rigidi. Allontanandosi dal grigiore istituzionale delle scuole. E di tutti i luoghi preposti a inibire la spontanea espressione delle persone. E su quella strada si è incamminato per fare della propria vita un segno di contraddizione. Ancora oggi, a cent’anni dalla nascita, il suo messaggio arriva a noi forte e chiaro. Gettando un ponte tra le esperienze del crtistianesimo s0chierato con gli ultimi, del marxismo libertario e non repressivo, della lezione di Gandhi e del pensiero non-violento.

Quanto il messaggio di Danilo Dolci sia ancora valido, in un mondo dilaniato da mille guerre e anestetizzato dall’indifferenza, lo si riscopre in un bel libro-biografia firmato dallo storico Giuseppe Casarrubea. Si intitola “Piantare uomini. Danilo Dolci sul filo della memoria”, lo pubblica Castelvecchi (pagg. 376, euro 22). E parte da un proverbio cinese che lo stesso poeta, educatore e attivista amava citare: «Chi guarda avanti dieci anni pianta alberi, chi guarda avanti cento anni pianta uomini».

Il libro di Casarrubea non si nutre solo di approfondite ricerche d’archivio. No, perché l’autore, che ha dedicato saggi a “Portella della ginestra”, alla “Scomparsa di Salvatore Giuliano, è figlio di un’attivista comunista antimafia, che ci ha rimesso la vita per aver osato mettersi contro l’onorata società

E poi, Casarrubea ha conosciuto da vicino Danilo Dolci. E ne può dare un ritratto molto intimo e, al tempo stesso, storicamente ineccepibile. Quello di un uomo partito dalla Sesana degli anni Venti, quando a Trieste i fascisti bruciavano il Narodni don e impedivano agli sloveni di parlare la propria lingua. E approdato nella Sicilia del dopoguerra, che la caduta del regime e gli oscuri accordi con le forze alleate avevano di fatto consegnato nelle mani della mafia. Passando per l’esperienza di Nomadelfia, la grande utopia di don Zeno Saltini. Una comunità cristiana fondata sui principi originali del Vangelo.

Convinto che dentro ognuno di noi ci sia già «la possibilità di analisi e sintesi», e quindi il potenziale della crescita seguendo il «proprio punto di vista», Danilo Dolci, morto nel dicembre del 1997, è l’uomo che ha sfidato la mafia dal basso. Facendosi umile tra gli umili, ascoltando pescatori e operai, rifiutando per principio le logiche del potere. Senza mai fermarsi o stancarsi, vivendo in povertà, regalando all’Italia libri e sogni.

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