Dante, il sonno improvviso non era soltanto poesia ma un segno di narcolessia

di MICHELE A. CORTELAZZO
Dante soffriva di narcolessia? È da qualche anno che questo sospetto è oggetto di trattazione scientifica. Nel 2013 Giuseppe Plazzi ha pubblicato a questo proposito un articolo nella rivista americana "Sleep Medicine".
Plazzi è un neurologo, professore all'Università di Bologna, esperto dei disturbi del sonno, autore di circa trecento lavori scientifici. A margine della sua attività di medico e di ricercatore, si è trovato a interessarsi delle patologie dei grandi poeti: in un convegno tenuto a Bologna sull'autenticità del "Diario postumo" di Eugenio Montale ha confrontato la grafia degli autografi del "Diario" con quella degli scritti certi montaliani dello stesso periodo, caratterizzati da una "micrografia" tipica di chi soffre del morbo di Parkinson.
In una città di mare come Trieste, il nome può far riandare la memoria di qualcuno al vincitore di tre campionati del mondo di vela negli anni Ottanta: ebbene, non è un caso di omonimia, è proprio lui.
Riguardo a Dante, Plazzi, fondandosi rigorosamente su quanto si ricava dalla sua opera, avanza l'ipotesi che il poeta conoscesse bene, probabilmente per esperienza personale, la narcolessia. Più volte Dante, nella "Divina Commedia", descrive le caratteristiche del proprio sonno: il suo viaggio nell'aldilà inizia, infatti, con un improvviso assopimento («Io non so ben ridir com'i v'intrai / tant'era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai») e termina con un risveglio spontaneo («Ma perché 'l tempo fugge che t'assonna, / qui farem punto, come buon sartore, / che com'elli ha del panno fa la gonna», nel XXXII canto del Paradiso).
Anche altrove, sono frequenti i momenti in cui Dante descrive il suo dormire (nel quarto canto dell'Inferno: «Ruppemi l'alto sonno ne la testa / un greve truono, sì ch'io mi riscossi /come persona ch'è per forza desta; / l'occhio riposato intorno mossi«), con rapide transizioni dalla veglia al sogno («e 'l pensamento in sogno transmutai», nel XVIII canto del Purgatorio), o racconta gli episodi di debolezza muscolare, scatenati da forti emozioni, con il seguito di improvvise cadute (ancora nel primo canto, di fronte alla lupa: «Questa mi porse tanto di gravezza» e, ancor più chiaramente, nel canto quinto dell'Inferno, quello del commovente, e coinvolgente, racconto di Paolo e Francesca: «E caddi come corpo morto cade»).
Queste descrizioni richiamano caratteristiche fondamentali della narcolessia, come i momenti improvvisi di sonno diurno, breve ma riposante, con immediata produzione di sogni; la repentina perdita di forze, fino a cadere a terra, in connessione con forti emozioni; allucinazioni, veri e propri sogni ad occhi aperti, che spesso interagiscono con la realtà; il senso di paralisi, quando, in prossimità della fase di addormentamento o subito dopo il risveglio, il narcolettico, pur essendo perfettamente cosciente, ha il corpo tutto paralizzato.
Già Cesare Lombroso aveva ipotizzato che Dante soffrisse di una malattia neurologica, propendendo per l'epilessia, malattia certamente nota a Dante che la descrive bene nel XXIV canto dell'Inferno («E qual è quel che cade, e non sa como, / per forza di demon ch' a terra il tira, / o d'altra oppilazion che lega l'omo, / quando si leva, che ' ntorno si mira / tutto smarrito de la grande angoscia»). Ma non vi sono tracce testuali nell'opera di Dante che possano suffragare l'ipotesi di Lombroso.
Per la narcolessia, invece, i riscontri non mancano. Non solo nella "Commedia". Troviamo tracce di sonno, sogni, allucinazioni e cadute anche nella "Vita Nuova" (a cominciare dal primo sonetto inserito in essa) o nell'Epistola IV, dove Dante racconta un episodio allucinatorio.
Più in generale nella "Vita Nuova", Dante presenta esperienze autobiografiche tipicamente associabili alla narcolessia: ancora momenti di sonno impellente in seguito a emozioni, comparsa di sogni subito dopo essersi addormentato, episodi di debolezza muscolare scatenati dall'emozione amorosa suscitata in lui da Beatrice, senza che vi sia una chiara perdita di coscienza.
Nel numero di marzo della prestigiosa rivista "The Lancet Neurology", l'ipotesi di Plazzi è stata rafforzata da un breve articolo di un gruppo di ricerca zurighese, di cui fa parte anche il bolognese Francesco Maria Galassi.
Ai contesti già individuati, il gruppo svizzero ne aggiunge un altro, anche se meno probante di quelli, più convincenti, emersi dallo studio di Plazzi. Di fronte alla "bestia", cioè la lupa del primo canto dell'Inferno, che abbiamo già menzionato, Dante chiede aiuto a Virgilio, perché «ella mi fa tremar le vene e i polsi». In questi versi si può riconoscere la descrizione di una precisa risposta fisiologica a una situazione di pericolo, la tachicardia (rappresentata dal tremar delle vene e del polso) stimolata dalla visione del pericolo.
Ma in questo contesto, secondo l'interpretazione di Natalino Sapegno, la bestia, non va vista come un animale reale, ma come un'immagine simbolica che rappresenta un'esperienza psicologica; riflette quindi un rilevante stato d'ansia. Lo stato d'ansia può essere frequentemente associato alla narcolessia. L'ipotesi di Plazzi, ora comunque più forte grazie all'integrazione di Galassi e del gruppo di ricerca zurighese, non è destinata a rimanere a lungo pura congettura, per quanto ben supportata dai testi. La narcolessia, infatti, è riconoscibile grazie a specifici marcatori genetici.
In occasione della riesumazione del corpo di Dante, nel quadro del centenario della sua morte, nel 2021, sarà possibile esaminare le ossa del poeta e verificare se vi sono questi marcatori.
La diagnosi da ipotetica diventerebbe, così, provata.
A quel punto, la discussione sulla natura letteraria dell'invenzione di Dante (sogno, visione, pura narrazione?) e sul suo onirismo, del quale si è occupato da ultimo Mirko Tavoni, italianista dell'Università di Pisa, in un saggio pubblicato nell'autorevole rivista "Dante Studies", organo della Dante Society of America, potrebbe, e dovrebbe, ripartire da nuove basi.
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