Di cosa parliamo quando diciamo Patria. Un’idea aperta: fiducia e futuro più che passato

“Prima gli italiani” è un richiamo che plasma comportamenti, spazi politici e inclinazioni sociali. Ma cosa si intende con “italiani”? Un’espressione che sembrerebbe rimandare a un senso di appartenenza alla nazione, alla patria. Ah, la patria, che parola difficile da maneggiare!
Per decenni queste tre sillabe si sono portate addosso l’ombra nera della retorica fascista e ci si è occupati più di tenerle a distanza che di capirle. Certo, pesava anche la lettura che di questa parola aveva fatto una certa filosofia tedesca, poi inclinatasi verso il nazismo. Patria, Heimat, indicava non solo il luogo dell’infanzia ma anche il sentimento di appartenenza, sicurezza e felicità che colleghiamo a un periodo e un luogo della vita.
Nell’Ottocento industriale, con le masse sradicate dalla campagna che migravano in città e con il diffondersi delle conseguenti esperienze di straniamento e alienazione, la definizione di Heimat si collegò sempre più strettamente all’idea dell’abbandono: la patria era il luogo a cui non si poteva fare ritorno e proprio per questo acquisiva una forte carica simbolica.
Non esiste nelle lingue neolatine una traduzione esatta di Heimat, forse vi si avvicina solo la parola slava dòmovina. Ma anche senza traduzione e senza scomodare il lato oscuro di Heidegger, in italiano “patria” è un concetto che a lungo è risuonato sinistro, portatore di morti e di guerra. Ma appunto si tratta di un uso ideologico della parola.
La storia ci ha insegnato che il richiamo al sentimento patriottico ha almeno due possibili tonalità.
Alexandar Hemon nel suo ultimo libro, ancora non tradotto in Italia, “My Parents: An Introduction/This Does Not Belong to You” ci fa riflettere sulla questione prendendola da un’angolatura geograficamente a noi molto vicina, riflettendo su quello che era il sistema jugoslavo sotto il governo di Tito. L’intero libro può essere letto come una lunga riflessione sul tema dell’appartenenza nazionale e della migrazione.
Nella bellissima parte dedicata ai genitori, l’autore di Sarajevo racconta come la madre conservò per tutta la vita una grande fiducia nel sistema titino: la animava qualcosa di molto simile all’orgoglio nazionale, ma su cosa si basava?
I genitori di Hemon si formarono come adulti negli anni in cui si andava formando, sotto la guida del Maresciallo, anche la giovane Repubblica Jugoslava. Le parole d’ordine che univano il paese erano fratellanza, uguaglianza di genere, educazione gratuita e obbligatoria. La madre ricorda che, un’estate, partecipò assieme a moltissimi ragazzi e ragazze alla costruzione dell’Autostrada della Fratellanza e dell’Unità che avrebbe dovuto collegare tutte le principali città dei Balcani. Una spontanea felicità animava i lavori, un sentimento nobile di appartenenza civile dettato dalla chiamata a fare qualcosa di grande per il proprio paese: costruire il presente e il futuro della nazione.
L’orgoglio patriottico nasceva in quei giorni sulla base di un’idea positiva di futuro a venire. Ci si sentiva jugoslavi perché si riconosceva nel presente una possibilità di riscatto, di miglioramento delle proprie condizioni di vita: in migliaia passarono da una casa con il pavimento lurido di terra battuta a una laurea e un buon lavoro in città. E allora sì che era bello intonare i canti nazionali davanti al fuoco nelle pause di lavoro, sentendosi parte di un progetto ideale.
Diverso il richiamo alla patria che risuonerà anni dopo in quegli stessi luoghi. Quando Slovenia, Croazia e Serbia annunceranno la volontà di riconoscersi come nazioni autonome lo faranno volgendo gli occhi al passato: si richiameranno ai miti austroungarici, riporteranno in vita sistemi legati a un governo collaborazionista, le ossa del principe Lazar lo sconfitto verranno ostentate in processione. E la Storia ci ha insegnato che fondare una mitologia patriottica sul passato – che siano le rovine dell’Impero romano o il racconto dei Nibelunghi –, ha quasi sempre condotto a una costruzione nazionalistica che invoca il sangue e l’identità costruita in opposizione a un nemico (da trovare). Inutile dire che le cose in questi casi non sono mai finite bene.
La chiamata all’appartenenza nazionale fondata, non su una pratica quotidiana, ma su un sentimento nostalgico e di opposizione all’altro che esclude minoranze e nuovi arrivati ci dice molto sullo stato di salute di un Paese e sulla sua capacità di immaginare un futuro per i propri cittadini.
Hemon ricorda che per sua madre la patria non era quel prodotto di secoli e secoli di storia, ma piuttosto era il risultato degli sforzi e dei sogni di persone come lei, persone che avevano visto la liberazione dal nazifascismo, che a undici anni erano andate via da casa per poter studiare, che si erano guadagnate un bel po’ di vesciche nei lavori giovanili, che all’università avevano diviso la stanza e il cibo con quattro giovani di simili origini finendo per essere i primi della propria famiglia ad avere una laurea e una casa con frigorifero e televisore. Persone come lei credevano nel proprio paese perché offriva loro un futuro non perché inneggiava a un primato d’identità nazionale (chi sarebbero poi questi italiani che devono venire per primi?).
Infine, se è vero che sentimentalmente il concetto di patria si accompagna spesso a quello di migrazione, all’idea di un luogo a cui non è più possibile tornare, allora sarebbe bello immaginare un futuro in cui “patria” sia un’idea aperta, aperta a tutti coloro che arrivano da altri luoghi, perché la nostalgia insopprimibile per quello che si è lasciato si nutra di ospitalità e fiducia. Solo così forse questa parola smetterà di avere un suono sinistro e racconterà invece una pratica di cittadinanza che si riconosce nella costruzione di un futuro.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo