Di Pietrantonio «Quando i bambini avevano due madri»

La scrittrice abruzzese che è medico di professione in finale sabato al Campiello con “L’Arminuta”
A vincere il Campiello, Donatella di Pietrantonio non ci pensa proprio. Anzi, se qualcuno dice che i pronostici la danno per favorita, si affretta a fare gli scongiuri. In ogni caso, sabato la sua “Arminuta”, il romanzo pubblicato da Einaudi che è entrato nella cinquina dei finalisti a fine maggio a Padova, potrebbe conquistare l’edizione numero 55 del Premio voluto e organizzato dagli industriali del Veneto.


L’appuntamento è fissato, come sempre negli ultimi anni, al Teatro La Fenice di Venezia. Nella serata finale, condotta da Natasha Stefanenko e Enrico Bertolino, la scrittrice di professione medico dentista di Penne, in Abruzzo, che prima de “L’Arminuta” ha pubblicato “Mia madre è un fiume” e “Bella mia”, contenderà la vittoria del Campiello a Stefano Massini con “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori), Mauro Covacich con “La città interiore” (La nave di Teseo), Laura Pugno con “La ragazza selvaggia” (Marsilio) e Alessandra Sarchi con “La notte ha la mia voce” (Einaudi).


L’Arminuta è una ragazzina che perde la mamma due volte. Quand’è ancora una poppante, negli anni ’60, viene data dalla sua famiglia, troppo povera e piena di figli, in affido a una coppia di parenti. Si illude di vivere per sempre con quei due genitori acquisiti, senza saperlo, coccolata e riempita di attenzioni. Fino a quando, negli anni ’70, ormai adolescente, viene restituita. Ritorna dalla madre e dal padre veri che lei, in realtà, quasi non conosce.


In un viaggio intenso tra rimorsi, rimpianti, sogni e delusioni, Donatella Di Pietrantonio racconta un’Italia dimenticata. Contrassegnata da usanze e riti spesso al limite della legalità, Dove il mondo dell’Arminuta si popola di personaggi indimenticabili. Primi fra tutti la sorellina Adriana, che aiuterà la “restituita” a trovare un nuovo posto nella realtà.


«Il tema della maternità è sempre stato al centro dei miei interessi di scrittrice - spiega Donatella Di Pietrantonio - soprattutto nei suoi suoi aspetti meno rassicuranti. Più oscuri. E poi, da bambina, di storie come quella dell’Arminuta ne ho sentite diverse. Abitavo in un piccolo borgo pedemontano del comune di Arsita, in provincia di Teramo, La nostra casa era nella contrada più remota. Non c’era la corrente elettrica, quindi nemmeno la tv».


Come passavate le serate d’inverno?


«Davanti al fuoco. E gli adulti improvvisavano per noi quelli che oggi sono i talk show. Raccontavano le storie del paese. Spesso, si sentiva parlare di bambini dati in affido da famiglie povere a coppie di coniugi sterili».


Colpa della miseria?


«Era una pratica avbbastanza diffusa dovuta a condizioni di disagio economico. Non solo in Abruzzo. Girando per l’Italia a presentare il romanzo ne ho sentite parecchie di queste storie, da Torino a Taranto».


Un affare tra parenti?


«Spesso i bimbi venivano dati a famiglie di parenti. Magari a una sorella che non poteva avere figli, se la prole della famiglia d’origine era molto numerosa. Però, a volte, i genitori adottivi potevano essere estranei. Conoscenti casuali».


Capitava che i bambini venissero venduti?


«Non ho mai sentito storie di bambini venduti. Di solito non c’era passaggio di denaro tra le famiglie».


Lei racconta una storia avvenuta negli anni di piombo...


«In realtà, ha un doppio piano temporale. Neli anni ’60 la lattante viene data in affido ai suoi nuovi genitori. Poi, quando la restituiscono alla famiglia, negli anni ’70, è già tredicenne».


Ma la legge stava a guardare?


«No, il fatto è che la legge sulle adozioni non c’era ancora. E poi, le famiglie si accordavano tra loro».


Difficile scrivere questa storia?


«Non è stato facile soprattutto dal punto di vista emotivo. Perché dovevo entrare nella testa di una bambina che subisce un doppio abbandono. E perde la mamma due volte».


Ne ha incontrate tante di “restituite”?


«Sì, ma non è stato facile farle parlare. Alcune confidavano la loro storia con grande facilità, altre le ho trovate molto reticenti. Hanno cercato di far passare la loro vicenda, decisamente straordinaria, come se fosse normale. Facevano fatica a esprimere i propri sentimenti. Posso immaginare che provassero vergogna».


Capitava soltanto alle bambine?


«No, anche ai maschi. Conosco un signore di 70 anni che era stato affidato a una zia».


Lei abita in un borgo bellissimo...


«Vivo a Penne, in provincia di Pescara, abbastanza vicino a dove c’era l’Hotel Rigopiano, travolto da una slavina dopo il terremoto di gennaio. È considerato tra i borghi medievali più belli d’Italia».


Ama molto la sua terra?


«Ho un legame forte con l’Abruzzo. E voglio sfruttare questa mia piccola notorietà per promuovere l’immagine di una regione pooco conosciuta, che ha paesaggi fantastici. Ma che, come tutto il Centro e il Sud d’Italia, soffre i tagli drastici del governo di Roma nei confronti delle nostre amministrazioni».


Medico e scrittrice: come fa?


«Potrei sintetizzare la mia vita così: dentista di giorno, scrittrice di notte. Mi sveglio molto presto, l’alba è il momento migliore per scrivere perché arrivano le idee più belle».


Lavora con metodo?


«No, procedo per illuminazioni. Non ho bisogno di stare giornate intere a scrivere. Mi bastano due ore dopo il risveglio. Scrivo di getto, poi rileggo, correggo, cambio».


Le idee arrivano anche mentre trapana un dente?


«Può capitare. A volte, magari, mi appunto qualche intuizione sui fogli del ricettario».


Amava scrivere già da bambina?


«La mia lingua madre è il dialetto. Quando ho iniziato la scuola elementare, mi sono innamorata dell’italiano. Una lingua bellissima. Tutto è cominciato lì, perché ho trovato un nuovo modo per esprimermi. I libri, la lettura sono stati importantissimi».


Ricorda i suoi primi tentativi?


«Scrivevo poesie in rima. Ispirate alla natura che circondava il piccolo borgo dove abitavo. Agli animali con cui avevo un contatto frequente. Alla montagna. Sì, assomigliavo un po’ a Heidi».


Ha conservato qualcosa?


«No, quei versi non superavano mai la prova della seconda lettura. In famiglia, poi, mi guardavano un po’ strano. Non ero incoraggiata, anche perché i miei genitori contadini ritenevano che ci fossero lavori assai più utili. Sono ancora molto legata a loro: mio padre, a 80 anni, continua a coltivare la terra».


Una civiltà, quella contadina, che sta scomparendo?


«Purtroppo sì. Anche se non voglio lanciarmi in una celebrazione della civiltà contadina, perché ha i suoi lati spigolosi. Lavorare nei campi è un mestiere molto duro».


Scrittori preferiti?


«Amo molto i libri di Agota Kristof. Al Festivaletteratura di Mantova parlerò di lei».


Dicono che vince lei il Campiello?


«Non so niente di questi pronostici. E faccio gli scongiuri. Sono pronta a qualunque verdetto arrivi dalla giuria popolare, perché sono felice di come questo mio romanzo sia arrivato al cuore dei lettori. E sì, lo confesso, la sera di sabato a Venezia sarò emozionata».


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