Difficile vivere “La vita com’è”
Una scrittrice e un aspirante autore nell’ultimo romanzo di Grazia Verasani
«Non è mai ciò che precede le parole la cosa più importante, perché la vita si annulla se la vivi solo per raccontarla, diventa funzionale, subordinata, non è mai la vita e basta». Siamo a Bologna, e lei, voce narrante, è una scrittrice cinquantenne alle prese con i complicati bilanci di una vita artistica e sentimentale dove disincanto e disillusione sono i conti più affollati della lista. Un giorno però si fa vivo Giovane Scrittore, aspirante autore trentenne che sottopone alla donna un manoscritto da valutare. Di più, Giovane Scrittore propone se stesso, avviando nei confronti della scrittrice un’insistente corteggiamento. Lei nicchia, si ritrae, oppone alla leggerezza esuberante dell’aspirante autore il blocco del suo vissuto, ora incagliato sul bagnasciuga dell’età come una nave disalberata. E quel piccione dispettoso che le impedisce di passare con l’auto alla periferia di Bologna, diventa il simbolo di una condizione esistenziale diffusa, quel rimanere immobili sulla via di un’esistenza che sembra aver già dato tutto. Ma la vita, appunto, «non è mai la vita e basta», e ci può sempre essere un nuovo inizio, a qualsiasi età e qualunque sia il percorso fatto.
In
“La vita com’è” (La Nave di Teseo, pagg. 219, Euro 17,00)
, titolo mutuato dalla canzone di Max Gazzè,
Grazia Verasani
torna sui temi che le sono cari: il rapporto tra vita e arte, la complessità dei sentimenti, l’idea per cui, volendo citare un verso del brano di Gazzè, «l’amore porta guai, si perde quasi sempre». La pensa così la protagonista del romanzo - una “Storia di bar, piccioni, cimiteri e giovani scrittori”, come spiega il sottotitolo -, che sulla scia dell’insistente corteggiamento dell’aspirante romanziere si inoltra nei labirinti di una quotidianità fatta di piccoli eventi, ricordi, amici ed ex fidanzati. Sullo sfondo squarci della società letteraria d’Italia, ambiente asfittico quanto i suoi protagonisti, essendo il nostro un Paese che pullula di egocentrati
scriventi
dagli orizzonti minimi, ma dove gli
scrittori
veri e consapevoli si contano sulle dita di una mano. Non è dunque questo il terreno ideale per una scrittrice calata in «un’epoca (...) invasa e corrosa dalla superstizione soggettivistica, dal culto dell’immagine», donna che si ritrova a gestire le bizze e le irruenze di un “giovin autore” in cui fatica a specchiare le proprie ambizioni e speranze: «Ero diventata una bambina di cinquant’anni sensibile ai complimenti, sempre più rari, e invecchiare con decoro era ormai un rovello quotidiano. Ma di una cosa ero più che sicura: Giovane Scrittore, con i suoi trent’anni, non mi avrebbe aiutata a fermare il tempo, anzi, lo avrebbe fatto correre più veloce». Ma gli occhi chiari del ragazzo piano piano fanno breccia nello scudo chiodato della donna, che vive protetta da muri di libri dietro i quali è facile nascondersi. E allora lo sguardo disincantato si fa più ampio e profondo sullo scorrere di una vita fatta di incontri al bar, visite al cimitero, genitori anziani, e soprattutto ricordi di rapporti perduti. Come quello con lo Scrittore, primo maestro della scrittrice quand’era ancora giovane, seguiva il punk, guadagnava qualche soldo doppiando film porno, si innamorava di musicisti delle varie band e insomma ancora non era presa dalle trappole della scrittura. E soprattutto non era arrivata «a quel punto dove l’amore, be’ non fa più male, si tratta sempre e solo di un rimaneggiamento».
Scrittrice, drammaturga, musicista, Grazia Verasani è fra gli autori italiani più eclettici e prolifici. Il suo romanzo noir “Quo vadis baby?” del 2004 è diventato un film di Gabriele Salvatores e poi una serie tv prodotta da Sky, portando il personaggio di Giorgia Cantini nel gotha dei migliori detective della narrativa di genere. Ma Verasani non si è mai adagiata sul genere, preferendo battere le ardue piste di una narrativa di ricerca, di cui “La vita com’è” è solo l’ultima tappa. La sua cifra resta quella di una inesausta osservazione della realtà nelle sue pieghe minime e più rivelatrici, nei risvolti tragicomici dei rapporti, con una sottile, insistita aspirazione verso un assoluto che non c’è. Perché la vita, così com’è, si annulla se vivi solo per raccontarla.
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