Disobbedisco, disse il Vate e fece la rivoluzione nei 500 giorni di Fiume

la recensione
È’ veramente dannunziano il libro di Giordano Bruno Guerri dedicato all’impresa di Fiume. Dannunziano per la ricchezza delle informazioni, anche intime e piccanti, disseminate in oltre mezzo migliaio di pagine, che si leggono con autentico godimento. Dannunziano ma non come scrittura, fortunatamente lo stile di Guerri è tutt’altro che ridondante e prolisso: è asciutto, chiaro ed efficace, già dal titolo, significativo: “Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920” (Mondadori, 550 pagine, 28 euro). Guerri spiega la sua scelta con il fatto che l’Impresa di D’Annunzio “fu, anche e certo, un episodio del nazionalismo più consueto, eppure rappresentò soprattutto una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni”.
D’Annunzio voleva fare la rivoluzione in Italia ed esportarla nel mondo, voleva disgregare la Jugoslavia che minacciava il suo disegno dell’Adriatico italiano e tramò con i croati, voleva creare la terza via tra capitalismo e comunismo. Per sedici mesi potè realizzare, almeno in parte, questa sua utopia, trasfusa nella Carta del Carnaro in cui il poeta-soldato e l’anarco-sindacalista Alceste De Ambris in 65 articoli delinearono una “Gerusalemme celeste” in versione laica, per usare la terminologia dannunziana. Una Carta che garantiva parità di diritti alle donne, tutelava i lavoratori, assicurava il welfare, ridimensionava il capitalismo, esaltava la democrazia diretta. Una Carta in cui “la bellezza è legge, la musica è religione”. Ma che non fu mai applicata.
La reggenza del Carnaro, come si chiamò il regime fiumano per non urtare il Re d’Italia, fu il periodo in cui Fiume ebbe su di sé gli occhi del mondo. Perché era un caso diplomatico, un laboratorio politico, un esperimento sociale che divise l’Italia. Scrive Raoul Pupo, in “Fiume città di passione” libro citato da Guerri: “I giornali socialisti e filo-governativi fanno a gara nel dipingere la Fiume dannunziana come un gigantesco bordello, in cui legionari scalmanati fanno il diavolo a quattro grazie alla compiacenza di un poeta esaltato e vizioso.
Ma le geremiadi giornalistiche non hanno effetti, perché sul piano della propaganda D’Annunzio non teme confronti quando afferma: “Nel mondo folle e vile Fiume è oggi il segno della libertà; nel mondo folle e vile vi è una sola cosa pura: Fiume; vi è una sola verità: e questa è Fiume; vi è un solo amore: è questo è Fiume! Fiume è come un faro luminoso che splende in mezzo a un mare di abiezione”. D’Annunzio dà il meglio di sé con un linguaggio in cui elemento religioso e politico si sovrappongono, ammalia le masse con la mistica della Patria e ne viene ricambiato con un’ammirazione sfrenata: “È un santo”.
L’esperienza affascina intellettuali come Hemingway, che ammira il “rodomonte” pieno di coraggio, ma anche politici che oggi non ci immagineremmo, come Antonio Gramsci che aveva scritto il 6 gennaio 1921 su “Ordine Nuovo”: “I legionari sono stati presentati come un’orda di briganti (….) D’Annunzio come un pazzo, un istrione, un nemico della patria (…) Su questi motivi il governo è riuscito a ottenere un accordo quasi perfetto: l’opinione pubblica fu modellata con una plasticità senza precedenti”. Ma i due non si intendono; così come falliscono altri “incontri a sinistra” a Impresa finita, promossi dall’infaticabile Nicola Bombacci, che sarà tra i fondatori del Partito Comunista Italiano e poi finirà fucilato a Dongo insieme a Mussolini.
Bombacci rappresenta l’anima socialista dell’Impresa, che ha tante anime perché è sostanzialmente libertaria, anche se D’Annunzio tutto vede e tutto controlla, anche se viene usato il manganello e l’olio di ricino contro gli oppositori in vista del plebiscito, anche se tutto deve avvenire in italiano.
Dopo il Natale di sangue troviamo un D’Annunzio stanco, ha quasi sessant’anni, è spossato da una vita spericolata, dove la droga e il sesso hanno un ruolo fondamentale. E’ stato tradito da Mussolini e aspetta l’occasione di rivalsa, che non verrà mai. Intanto si gode quel Vittoriale che il Duce benevolo gli ha permesso di erigersi, un monumento funebre già in vita. Perché Mussolini sapeva benissimo che D’Annunzio a Fiume stava preparando la rivoluzione per rovesciare l’odiato governo liberale di Giolitti, ed è riuscito a bloccarla. Il futuro Duce ha tramato con Giolitti, che ha usato i cannoni per liberare Fiume dai legionari. Poi ha preso il potere con la marcia su Roma. D’Annunzio lo ha appoggiato, anche nei giorni travagliati del delitto Matteotti nel ’24. Perché?
Dalla sua anamnesi dei rapporti tra Mussolini e D’Annunzio, Guerri fa capire che il poeta-soldato si è lasciato manipolare, ma sottolinea che non fu mai fascista. Può darsi, però è sicuro che con l’invenzione della “vittoria mutilata” D’Annunzio ha dato al Duce una formidabile base ideologica. Inoltre Mussolini ha tratto dai miti e dai riti del Vate la sua “liturgia della politica di massa”: i discorsi dal balcone, il dialogo con i seguaci-fedeli, il culto per le bandiere e i simboli, le camice nere, i fez, e la terminologia, come “me ne frego”, “a noi”, “eia eia alalà”, alla quale D’Annunzio aggiungeva “viva l’amore”. E si è appropriato dell’impresa di Fiume come anticipatrice del Fascismo. Il Vate comunque gli faceva ombra e il dittatore l’ha relegato nell’esilio dorato in patria, che lui ha accettato.
La storia non si fa con i se, ma se D’Annunzio fosse intervenuto nei tumultuosi giorni del delitto Matteotti? Lo stesso Mussolini ammetterà nel ’38 alla morte del poeta, che temeva un intervento di D’Annunzio, il quale godeva di un’immensa popolarità in Italia e anche all’estero. Perché nulla trapelasse, la notte stessa del decesso fa trafugare una valigia con il carteggio tra lui e D’Annunzio, che sparirà.
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