“Donne in bicicletta” l’emancipazione femminile nel mondo corre sui due pedali

Paolo Marcolin
La bicicletta non nasce femmina. Secondo i vocabolari etimologici il termine bicicletta si diffonde intorno al 1893; prima, quel nuovo mezzo di locomozione umana con telaio e ruote era chiamato velocipede. Ma quando la bici prende piede non è un caso che entri a far parte dell'universo femminile. In un mondo che ribolle, in cui chi stava in seconda o terza fila, donne, operai, contadini, comincia a venire alla ribalta come nel quadro di Pelizza da Volpedo, la bici esprime in modo palese il bisogno di affermare i diritti degli esclusi. Quando a fine Ottocento la femminista americana Frances Willard salì per la prima volta in sella a una bicicletta disse solennemente: "chi riesce a padroneggiare una bestia come la mia Gladys può padroneggiare anche la propria vita".
La bici contribuisce in modo portentoso all'emancipazione femminile. Per pedalare ci si libera del corsetto, delle gonne alla caviglia, in un colpo volano via i segni di una costrizione secolare. In bici le donne vanno al lavoro, ma cominciano anche a gareggiare. Dalle suffragette alle donne partigiane come l'Agnese del romanzo di Renata Viganò fino al primo giro d'Italia femminile, nel 1958, la bicicletta si allea con le donne nel loro diritto di votare, combattere, affermarsi. Ma non è stato un viaggio in discesa, quello che Antonella Stelitano racconta in “Donne in bicicletta” (Ediciclo, pagg. 493, euro 20).
Ancora nel 1941 il vescovo di Lodi definiva "ributtante e indecente lo spettacolo delle donne in bicicletta mentre il vento gioca tra le attillate e cortissime sottanelle" e nel Giro d'Italia maschile degli anni Cinquanta il regolamente impediva la presenza di donne al seguito, giornaliste comprese. Tanto che per scrivere i suoi articoli per 'Epoca' Anna Maria Ortese dovette calarsi un cappello sugli occhi e indossare pantaloni e larghe camicie. E si era addirittura nel 1977 quando un giornalista come Giampaolo Ormezzano nella sua 'Storia del ciclismo' opinava che "la donna bella sta bene in bicletta, ma la donna atleta sulla stessa bicicletta sembra talora imbruttita, umiliata dal mezzo".
La Stelitano, veneta, di una regione che ha con la bici un rapporto intimo, fraterno, ha compiuto un non facile lavoro di ricerca sul ciclismo femminile (pochi articoli o libri, archivi smarriti o buttati...) rintracciando e facendo parlare molte atlete, alcune vere pioniere in anni in cui le donne che gareggiavano in bici erano viste con ironia denigratoria. Ne è venuto fuori un puntiglioso lavoro che abbraccia tutto il mondo del ciclismo femminile italiano, nello sviluppo del quale è stato centrale 'il ciclone' Maria Canins. Fu l'atleta della Val Badia a segnare una svolta quando, a 32 anni nel 1982 sale in bici per la prima volta e inizia a raccogliere successi. Tre anni dopo vince il Tour de France e si merita gli elogi di Hinault: "non pochi corridori che corrono il nostro Tour non vanno forte come lei". Da allora il ciclismo femminile in Italia compie passi da gigante. Nel 2018 il Giro Rosa arriva sullo Zoncolan, una conquista che dimostra come le cicliste non hanno niente da invidiare ai loro colleghi. La carovana ormai conta circa cinquecento persone tra atlete, medici, cronometristi. È cresciuto il movimento, sono arrivati gli sponsor, e ci si chiede cosa succederà adesso, dopo la crisi economica che la pandemia probabilmente scatenerà.
Il libro della Stelitano, una ricchissima ricerca attraverso le competizioni nazionali e internazionali, coniuga più filoni: il racconto storico con l'evoluzione del contesto sociale fino al sistema della governance del movimento. La bicicletta non ha mai smesso di essere uno strumento di emancipazione, conclude l'autrice, che cita un film del 2012 della regista saudita Haifaa Al-Mansour, che raccontava il desiderio di una bambina di possedere un oggetto proibito come la bici. Chissà se è stato l'effetto del film, ma nel 2013 le donne saudite si sono viste riconoscere il diritto di andare in bicicletta, anche se solo nei parchi o sul lungomare e a patto che indossino "abiti modesti". Un primo, seppur piccolo, colpo di pedale. —
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