Dopo il massacro delle trincee la questione adriatica si rivelò una spina nel fianco per l’Italia

Da “L’Italia e la questione adriatica” di Marina Cattaruzza pubblichiamo la parte finale del primo capitolo, per gentile concessione della casa editrice il Mulino. di MARINA CATTARUZZA Secondo lo...
Di Marina Cattaruzza

Da “L’Italia e la questione adriatica” di Marina Cattaruzza pubblichiamo la parte finale del primo capitolo, per gentile concessione della casa editrice il Mulino.

di MARINA CATTARUZZA

Secondo lo storico tedesco Klaus Schwabe, sull’applicazione del Patto di Londra si giocava il riconoscimento pieno dell’Italia come grande potenza e l’opposizione di Wilson era dovuta al fatto che il presidente americano non era disposto a riconoscere all’Italia uno status analogo a quello della Francia o dell’Inghilterra. Che questo fosse il punto centrale dell’intero contenzioso veniva pure rilevato dal delegato britannico a Parigi, Harold Nicholson, che constatava: «L’Italia era determinata a diventare una grande potenza, senza che la sua forza interna giustificasse una simile ambizione».

A sua volta, l’ambasciatore a Londra Guglielmo Imperiali annotava con tono abbattuto l’8 luglio 1919, dopo aver cessato il servizio in qualità di delegato italiano alla Conferenza della pace: «Nel fondo quel che più di tutto mi ha amareggiato a Parigi è stata la constatazione della svalutazuione morale cui progressivamente i nostri principali ministri hanno condotto il paese. Ci siamo trovati, malgrado l’importanza della nostra cooperazione militare, e la resistenza interna del popolo, ridotti a potenza di second’ordine. Capisco che non potevamo pretendere di essere a paro con l’Inghilterra e con l’America, ma con la Francia sì e come».

L’interpretazione della prima guerra mondiale e del suo esito risentono a tutt’oggi, soprattutto da parte della storiografia straniera, del giudizio che ne diedero i maggiori esponenti dell’interventismo democratico, come Gaetano Salvemini, Luigi Albertini e Leonida Bissolati. L’autorevolezza di tale interpretazione, di ascendenza mazziniana, risultò ulteriormente irrobustita in seguito alla avvenuta dissoluzione dell’Impero asburgico e per il fatto che la visione idealistica di Wilson pareva richiamarsi ad essa. Il fallimento italiano alla Conferenza della pace sarebbe stato provocato dalle esorbitanti pretese contenute nel Patto di Londra e dall’incompetenza di Orlando e di Sonnino come negoziatori. Di fatto, come ha osservato recentemente Daniela Rossini, il patto di Londra era più moderato della maggior parte dei trattati segreti stipulati dall’Intesa nel corso della Prima guerra mondiale. Pur se la formazione di uno “Stato successore” della Monarchia asburgica sull’altra sponda dell’Adriatico imponeva senza dubbio dei correttivi alle richieste territoriali italiane, la strategia di prendere il Patto di Londra come punto di partenza per addivenire poi ad un compromesso, non può essere considerata peregrina.

Di Fiume fu fatto un uso strumentale da parte dei contraenti che l’Italia si trovò di fronte a Parigi: infatti i delegati italiani segnalarono abbastanza presto che erano disposti a transigere sulla richiesta di una sovranità piena su Fiume, accontentandosi che ne venisse garantita l’autonomia rispetto alla Croazia.

D’altro canto, dati gli entusiasmi suscitati dalla nuova parola d’ordine dell’«autodeterminazione» in ampi settori dell’opinione pubblica, soprattutto democratica, disintertessarsi soprattutto di Fiume diventava impossibile. Divergenze tra Orlando e Sonnino ci furono senz’altro, come ci furono giudizi contrastanti sulle priorità sulle quali dovesse impegnarsi la delegazione italiana.

Tuttavia, ciò che contò meno di altri fattori, che sfuggivano del tutto all’influsso italiano, quali: a) l’irremovibile opposizione di Woodrow Wilson alle richieste italiane, espressa già nel nono dei suoi quattordici punti; b) l’influenza della lobby filojugoslava brittanica, che attraverso l’impero mediatico di lord Northcliffe conduceva una sistematica campagna a favore di un accoglimento ampio delle richieste jugoslave; c)l’ostilità di Georges Clemeceau, che vedeva in un’Italia uscita vittoriosa dal conflitto una scomoda concorrente della Francia nell’area balcanica. A fronte di una simile costellazione di fattori, il nulla di fatto con cui si concluse il Governo Orlando rientrava nell’ordine delle cose.

Riguardo alla situazione interna, la conclusione vittoriosa della guerra aveva provocato nel paese un’ondata di entusiasmo patriottico che per le sue dimensioni ed intensità lasciò stupefatti il presidente del Consiglio e lo stesso sovrano. Realisticamente Orlando valutava che fosse pericolosissimo, in una tale congiuntura, stipulare un trattato di pace che deludesse le aspettative della società italiana. Il Parlamento, a sua volta, sostenne con decisione e compattezza i lavori della delegazione alla conferenza della pace, manifestando anche per voce dell’opposizione socialista posizioni moderate, sulle quali si trovò persino a convergere il futuro ministro degli Esteri Tommaso Tittoni.

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