Dove il mare sputa alghe e pezzi di legno cerco quei capelli che mi hanno fatto ombra

La spiaggia, un tempo separata dalla rete. Dietro, la strada con i camion diretti alla cava, sopra, il declivio ricoperto di alberi, morbide onde verdi che celano la mia inquietudine, lieve e solitaria.
Oggi cammino tra le alghe e i pezzi di legno, portati a riva dal mare, affondo leggermente i piedi nei piccoli sassi che frusciano sotto i miei passi, onde leggere nel mare, nessun verso d’uccello, il cielo è calmo, silenzioso.
Mi fermo. Davanti a me il mare, la spiaggia vuota, il castello di Duino in lontananza. Immagino un angelo, tremendo e spietato, che spicca il volo, suscitando in me immagini che dall'oblio ritornano vivide nella mia mente.
Vedo una ragazzina, con gli occhi come il cielo, come il mare. Mi guarda, ancora ragazzino, disteso sulla spiaggia, lei in piedi sopra di me, la sua ombra proiettata sul mio corpo, sul mio sonno.
Apro gli occhi, mi alzo, mi guardo intorno per vederla. Non c'è. Attorno a me i corpi dei bagnanti, abbronzati, i volti sorridenti.
Mi giro nell'altra direzione.
Dionea. La motonave trasporta i passeggeri da Trieste alla baia di Sistiana, alzerà le onde, lo so. La seguo con lo sguardo. Sta già svoltando nel porticciolo di Sistiana, sparisce, tutta blu.
Il mio sguardo si posa sull'alta rete di ferro che divide la spiaggia in due zone: quella più grande è riservata a chi può pagare l'ingresso per avere la spiaggia pulita, lo stabilimento ordinato, le cabine, mentre la zona più piccola è per noi che ce ne stiamo sdraiati tra le alghe e i pezzi di legno portati a riva dal mare.
Mi avvicino alla rete. Oltre la rete c'è lo stabilimento, Castelreggio. Oltre la rete la gente, paurosamente calma, il castello di Duino, ancora lì, immobile, e le nuvole al di sopra, più a destra le scogliere, tremendamente alte e lisce, ai loro piedi un altro stabilimento, Caravella, allora non lo conoscevo.
Guardo nell'apertura della rete pensando di trovarla dall'altra parte.
Le onde della Dionea si stanno alzando e sbattono violentemente contro la costa, i bambini urlano di gioia e di paura.
Oltre la rete d'un tratto vedo il suo volto sottile, non so se sia lei, colei che mi ha svegliato dal sonno, coprendomi con la sua ombra, non so se siano gli stessi capelli neri che le scendono sulle spalle.
Sento la sirena della Dionea in uscita dal porticciolo.
Dionea, Dionea, urlano i bambini correndo verso il mare per andare incontro alle nuove onde.
D'un tratto i rumori attorno a me si fanno sempre più tenui, fino a sparire del tutto. In lontananza sopra il castello di Duino nubi sempre più scure si stanno addensando.
Nel silenzio dei miei pensieri costeggio la rete in direzione del mare, le onde si alzano un'altra volta. Con le dita rasento la rete di ferro, la fiancheggio scalzo in direzione del punto in cui la rete affonda nel mare. Nuoterò dall'altra parte, penso, e proseguo. Mi aggrappo convulsamente alla rete per entrare più facilmente in acqua, le onde sbattono contro il mio corpo, che oscilla in tutte le direzioni. Non demordo, mi immergo ancor di più, fino a non sentire più il fondale sotto i piedi, e nuoto nella schiuma delle onde. Muovo vigorosamente le braccia per superare le onde, l'acqua salata mi scende in gola, tossisco e continuo a nuotare in semicerchio verso la spiaggia proibita, nuoto, la distanza mi sembra infinita, irraggiungibile, incomprensibile. Nuoto, respiro profondamente, sempre più veloce, soffoco. Vedo il castello di Duino sempre più sfocato, vedo le falesie cadere sempre più a strapiombo nel mare, lontano, dall'altra parte della baia.
Mi manca l'aria, respiro a bocca aperta. Mi fermo per riposare, muovo lentamente le gambe sott'acqua.
Continuo a nuotare.
Supero la linea di confine della rete, vedo la gente in spiaggia paurosamente calma avvicinarsi sempre di più, non trovo il coraggio di uscire sulla terraferma. Il mio sguardo fugge ovunque nella speranza di incontrarla. Forse sarà lei a venire da me, a farmi un cenno affinchè io la raggiunga, penso.
Resto a galla, guardo verso la spiaggia, mi sento osservato poiché non appartengo a quella zona, il mio posto è oltre la rete, dove il mare sputa le alghe, i pezzi di legno e tutto ciò che cavalca le sue correnti. Non demordo, concentro tutte le forze per tenermi a galla, per non farmi inghiottire dal mare.
Non ce la faccio più.
Torno indietro.
Le nubi tempestose sono sempre più vicine. Sento di nuovo i rumori che sentivo fino a poco prima. Le onde, le urla degli altri bambini, le risate della gente, il canto degli uccelli.
Tutto affannato mi siedo accanto a mio padre e a mia madre, a mia sorella e a mio cugino che quel giorno è venuto con noi in autobus, quello blu con la scritta Saita, e che era rimasto per tutto il tempo in acqua, tanto che le sue labbra erano diventate fredde e blu.
Andiamo, bambini, cambiatevi, dice la mamma e una raffica di vento alza i suoi capelli e quelli di mia sorella. Io e mio cugino corriamo a cambiarci nel boschetto sopra la spiaggia per non doverci nascondere davanti alla gente, riparati dagli asciugamani. Attraverso il bosco guardiamo il mare, le falesie sopra la spiaggia, dalle quali pare che talvolta spicchino il volo anche le persone, compiaciute dagli ultimi raggi di sole, quando sento sul mio volto le prime gocce di pioggia.
Proprio come adesso, quando il cielo è calmo, silenzioso.
(Traduzione di Tanja Sternad)
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