E il cacciatore Buzzati non mangiò più carne

Un “Bestiario” in due volumi con tutte le storie che lo scrittore ha dedicato al mondo animale
Di Alessandro Mezzena Lona

di Alessandro Mezzena Lona

Dicono che gli animali dello zoo, quella notte, fossero particolarmente irrequieti. Il 28 gennaio del 1972 su Milano si era scatenata una bufera di neve. Dino Buzzati stava morendo di cancro in un letto d’ospedale. E loro, l’orso, la vecchia leonessa, gli uccelli esotici, si erano messi a fare baccano. Quasi volessero salutare l’amico umano che si incamminava nel lungo viaggio verso il mistero. Con versi alti, strazianti.

Tra il grande scrittore Dino Buzzati e gli animali che avevano perso la loro libertà, la dignità, dentro le gabbie dello zoo, c’era un legame particolare. Fortissimo. Lui, che abitava in viale Vittorio Veneto a Milano, proprio lì di fronte, andava a trovarli spesso. Davanti alla gabbia dell’orso, dicono che si fermasse anche venti minuti. E uno dei guardiani era convinto di averlo visto togliersi il cappello quando si avvicinava a quei nobili prigionieri.

Vero è che qualche anno prima di morire, il 29 giugno del 1965, aveva scritto sul “Corriere della Sera” una “Petizione al signor sindaco”. Chiedendo al primo cittadino di migliorare le condizioni in cui viveva la foca. Il suo «stanco ululo, un lento e feroce singhiozzo, un disperato richiamo» teneva sveglio di notte lo scrittore del “Deserto dei Tartari”.

Ma c’è un altro episodio emblematico del rapporto forte, controverso, spesso paradossale di Buzzati con il mondo animale. Lo racconta Lorenzo Viganò nel saggio introduttivo «Un animalista “ante litteram”» che ha scritto per il doppio, splendido volume del “Bestiario di Dino Buzzati” (pagg. 319 e 429, euro 30), da lui curato per gli Oscar Mondadori.

L’episodio risale sempre all’ultimo giorno di vita dello scrittore. Raccontava il poeta e giornalista Giorgio Soavi che, proprio quel triste 28 gennaio, era a casa Buzzati. Si trovava lì per aiutare la madre della moglie-bambina Almerina (scomparsa alla fine dello scorso novembre, dopo una vita dedicata a difendere e diffondere l’opera dell’amato Dino) a preparare la stanza che avrebbe accolto la salma dello scrittore per la veglia funebre. Non appena sul materasso furono rimboccate le lenzuola pulite, il cane Diabolik volle distendersi, con tutta la sua stazza, proprio lì. Come se aspettasse il padrone. O volesse infrangere una regola che aveva sempre onorato con grande scrupolo. A nulla valsero i tentativi di farlo scendere dal letto.

Negli ultimi anni della sua vita, Buzzati aveva smesso di mangiare carne. Non sopportava di ridursi come certi suoi conoscenti che al bar, o nel salotto di casa, si professavano amici degli animali. E poi non trovavano nulla di strano a ordinare al ristorante una bella fiorentina al sangue. Ma Dino non era sempre stato un animalista ante litteram, uno scrittore e artista capace di anticipare la moda dell’ecologismo e del vegetarianesimo. No, ci sono lettere raggelanti inviate all’amico fraterno Arturo Brambilla in cui non fa mistero di divertirsi un mondo a indossare i panni del cacciatore. A sparare agli uccelli che gli si facevano incontro.

Qualcuno dice che è stato un libro il punto di svolta. Una fiaba inventata per le nipotine Pupa e Lalla, pubblicata prima sul “Corriere dei Piccoli” nel 1945 e poi in volume. Ovvero, “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”. Perché lì, raccontando e disegnando, per la prima volta lo scrittore immaginava una rivolta degli animali contro l’uomo crudele. In realtà, a ben pensare, già “Il segreto del Bosco Vecchio” del 1935 metteva in mostra la grande anima “verde” del suo autore. Un narratore che trovava il coraggio di dare voce al Vento Matteo, alla gazza, a vari animali. Di far morire il colonnello in pensione Sebastiano Procolo in mezzo a quegli alberi che avrebbe raso al suolo senza farsi venire troppi rimorsi.

Ma da un certo momento in poi, è evidente che Buzzati ha sentito più forte il richiamo del mondo animale. Tanto che il suo primo “Bestiario”, pubblicato parecchi anni dopo la sua morte, nel 1991, da Mondadori a cura di Claudio Marabini, raccoglieva già 36 racconti e 16 articoli in cui cani e gatti, ma anche creature immaginarie e talvolta mostruose, erano protagoniste.

Viganò è andato molto più in là. Non solo ha voluto arricchire quello straordinario “Bestiario”, sparito ormai dai cataloghi e diventato oggetto da collezione, ma l’ha ampliato. Tanto che il primo volume annovera 46 storie dedicate ai cani, più un bellissimo prologo, in cui Buzzatti ammette di «possedere» e di «essere posseduto» dai suoi amici a quattro zampe; 8 sono riservate ai gatti; ben 17 raccontano altri animali. Il secondo tomo invece, “L’alfabeto dello zoo”, diventa una vera e propria mappa per orientarsi nel mondo fantastico dello scrittore. Si parte dall’antilope per concludere con volatili vari. Non possono mancare, ovviamente, autentici gioielli narrativi come “Il Colombre”, “La giornata della gallina zero”, il malinconico “La fine del Babau”, “In fondo alla soffitta”, “I reziarii”.

Storie scritte per dire che l’uomo si è arrogato a torto il diritto di spadroneggiare sulla Terra. E che se dalla notte dei tempi ci sforziamo di credere di non essere mortali, di avere una vita oltre la vita, dovremmo fermarci più spesso a guardare gli animali negli occhi. Perché lì dentro troveremmo la certezza, scriveva Buzzati, «che anche loro possono avere un’anima». Spesso più nobile della nostra.

alemezlo

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