Elio Germano e “Favolacce” una Berlinale all’italiana

È doppietta italiana alla 70esima edizione della Berlinale, la prima della nuova era Chatrian. Sul podio i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, premiati con l’Orso d’argento alla migliore sceneggiatura per “Favolacce”, ed Elio Germano, migliore attore nel ruolo di Antonio Ligabue nel film di Giorgio Diritti “Volevo nascondermi”. Ci si sperava, fin dalla calorosa accoglienza che i giorni scorsi ha salutato la premiere di entrambi i film. E non per campanilismo o tifoseria. Ma per sano orgoglio. Perché anche l’Italia (sempre più) in affanno ha i suoi talenti, le sue eccellenze, ed è rassicurante che ci vengano riconosciuti soprattutto all’estero, in un contesto internazionale.
Non c’è dubbio che “Favolacce” fosse tra i migliori titoli del concorso, un racconto potentissimo, scuro e feroce che si immerge nel cuore nero del nostro Paese, in una provincia che pulsa dei peggiori istinti, mentre i bambini ci guardano, testimoni del nostro fallimento. Il verdetto della giuria presieduta da Jeremy Irons ha reso solo parzialmente giustizia ai gemelli romani, che potevano sperare in qualcosa di più, ma il premio vuole anche tradursi in un incoraggiamento, trattandosi del loro secondo film, dopo l’esordio, sempre qui a Berlino, con “La terra dell’abbastanza” nel 2018. Felici e commossi i registi, legati in un rapporto quasi simbiotico e già pronti a far rientro a Roma per mettersi al lavoro sul prossimo film, si sono stretti sul palco e dopo i ringraziamenti di rito si sono dedicati reciprocamente il riconoscimento (suggellato da un colorato «Mortacci sua...»). Elio Germano era già stato migliore attore a Cannes nel 2010 per “La nostra vita” di Daniele Luchetti, ma a Berlino è stato l’uomo del festival, in gara sia con il film dei D’Innocenzo che in quello di Diritti, dove vestiva i panni di Toni Ligabue. Tre ore di trucco al giorno e il peso di diversi strati di abiti, sposando l’idea di una deformità che lo ha reso vincente. «Dedico il premio a tutti gli storti - ha affermato dal palco del Berlinale Palast -, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta e ad Antonio Ligabue, alla grande lezione che ci ha dato, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane. Lui diceva sempre “Un giorno faranno un film su di me”, ed eccoci qui».
L’Orso d’oro di questa edizione volerà invece nuovamente in Iran (a cinque anni di distanza da “Taxi, Teheran” di Jafar Panahi), tra le mani del regista Mohammad Rasoulof, assente a Berlino per non aver ottenuto il passaporto confiscato dalle autorità nel 2017, al ritorno da Cannes dove aveva vinto Un Certain Regard con “A Man of Integrity”. Condannato a un anno di prigione per propaganda contro la repubblica islamica, non è ancora stato imprigionato, ma ha il divieto di girare film e uscire dal Paese. E il suo nuovo film “There is No Evil” (distribuito in Italia dalla Satine) è un nuovo schiaffo al regime: quattro episodi in cui si denunciano a chiare lettere la pena di morte, la repressione, la colpa, la militanza. Migliore attrice Paula Beer, moderna sirena nel bellissimo “Undine” di Christian Petzold, miglior regista il coreano Hong Sansoo con un altro piccolo film di vita quotidiana, gran premio della giuria a Eliza Hittman con “Never Rarely Sometimes Alway”, il viaggio di una teenager dalla Pensylvania a NewYork in cerca di aborto, un “Juno” senza moralismi. —
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