Elio Grasso e le sue pillole sui poeti che detesta

«È una storia di libri la mia. Piena come è ovvio di buchi e mancanze. Non sono un critico, ma un flâneur un po’ snob e un po’ situazionista, dedito alle simpatie per quel che riguarda la scrittura, mentre i poeti sì quelli li detesto». A osservarlo è Elio Grasso, una riflessione a proposito del suo “Anni di poesia. 1985-2019” (Puntoacapo Editore, pag. 384, euro 25), più di trent’anni di critica a dirci com’è cambiato il mondo, in qualche modo, pure sul fronte della scrittura in versi. Articoli che ci restituiscono sempre un’analisi attenta, una sensibilità in grado di individuare una dimensione di ricerca da ciò che non lo è. D’altra parte l’autore è anche traduttore e poeta. In “Anni di poesia” possiamo incontrare classici, oltre che i maggiori poeti contemporanei fino alle ultime generazioni. Una scrittura puntuale, ma anche frontale, con una giusta dose di provocazione, come si può intuire dalla sua stessa dichiarazione: «I poeti sì, quelli li detesto». Perché in fondo è vero, difficilmente i poeti sono amabili come le loro poesie, sovraeccitati da un ego lamentoso, “Questi poeti non fanno altro che gemere”, scriveva Risi, mentre uno straniero più sfrontato aveva dichiarato quanto i poeti si trasformino nel muro del pianto se i giornali li dimenticano.
Ma a Elio Grasso, come lui stesso afferma, i poeti non interessano: «Ci sono nomi che si ripetono... Cagnone, Viviani, Anedda, Sicari, Celan, Montale, Raboni, Porta, ma io seguo i libri e quindi le occasioni di uscita». Il volume raccoglie infatti le recensioni che Grasso ha scritto per le riviste quali “Pulp Libri”, “Poesia”, “Gradiva”, un percorso fatto di selezioni, di inclinazioni ma anche di un intuito che produce pillole di saggezza come nella recensione dedicata a Valentino Zeichen, fiumano di nascita, a proposito del suo “Museo interiore”, edito da Guanda nel 1987: «Vacante è la prudenza nel quarto libro, quarto manuale di Zeichen sull’arte della meditazione singolare sulle cose banali del mondo – perché la prudenza, per nostra fortuna, mal s’intona all’animo sagace (mitteleuropeo) che speditamente lascia il posto all’arguzia». E poi altre perle per Wallace Stevens, Bonnefoy, Brodskij, Plath, Eliot, insomma i più grandi, come tra gli italiani non mancano Campo, Zanzotto, Montale, Magrelli, Cucchi, De Angelis, Anedda fino ai più giovani promettenti tra cui Alberto Pellegatta e Marco Corsi.
Interessanti inoltre gli editoriali su “Steve”, tesi a evidenziare il percorso della poesia, dal 1985 a oggi, dove Grasso conclude come sia difficile, nel contemporaneo, individuare una linea, scrive appunto che una linea non c’è: «Ma la poesia si adatta perfettamente alle conseguenze di un mondo dislocato nell’ingegnosa mitologia pop. Nella pervasiva connessione odierna non ci sono mai state tante realtà sconnesse. Oggi la poesia è polverizzata in mille rivoli e non sono nemmeno tanto interessanti. Critici come un tempo che la delineavano, utilizzando i poeti del loro tempo, incommensurabilmente migliori, non ce ne sono. Ma può essere che mi manchi qualcosa, i dubbi li ho sempre, a differenza di questi giovinetti che sono sempre sicuri di tutto». —
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