Ezio Mauro «La Rivoluzione vista in diretta»

Il giornalista racconta l’Ottobre rosso nel libro “L’anno del ferro e del fuoco”
13/09/2017 Roma, Rai Storia presenta il programma Cronache di una rivoluzione nella foto Ezio Mauro
13/09/2017 Roma, Rai Storia presenta il programma Cronache di una rivoluzione nella foto Ezio Mauro
L’assassinio di Rasputin, il monaco nero, «quasi un omicidio rituale e un delitto politico per restituire libertà alla Russia e autonomia alla Corona». La città di Pietrogrado, dove «cent’anni dopo, tutto sembra com’era, in questa composizione intatta di storia e di luce, di marmi e di fato, di ghiaccio e di memoria». Poi la rivoluzione di febbraio, cominciata «quando le ragazze e le vecchie operaie uscirono alle sei di sera dal portone della filatura di cotone “Krasnaja nit”, “Filo rosso”». E avanti giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, nel corso dell’anno che cambiò la storia del mondo, con il ritorno di Stalin dalla Siberia, l’abdicazione di Nikolaj II in favore del fratello Mikhail. E ancora l’insurrezione guidata da Lenin, l’Assemblea dei Soviet, fino al massacro della famiglia imperiale.


Sono le vicende che
Ezio Mauro
rievoca ne
“L’anno del ferro e del fuoco. Cronache di una rivoluzione” (Feltrinelli, pagg. 241, Euro 18,00)
, libro nato come reportage a puntate su Repubblica, ora diventato racconto serrato di ciò che avvenne nel 1917, indagine memoriale nel tempo e nello spazio che ripercorre le tappe della rivoluzione russa. Frutto di cinque viaggi nei luoghi dove è passata la Storia, e di una passione per la Russia che non ha mai abbandonato il grande giornalista dai tempi in cui lavorava come corrispondente da Mosca, “L’anno del ferro del fuoco” è diventato anche documentario e piéce teatrale. Scritto «per chiudere conti aperti con la Russia», dice Ezio Mauro, il libro mese per mese cala il lettore nei fatti e nella congerie dell’epoca, saltando dal passato al presente per indicare le tracce rimaste di ciò che avvenne. Tracce spesso quasi dimenticate, o nascoste, come la radura dove venne sepolto il corpo di Rasputin.


Cosa spinge un cronista abituato a fare i conti con le battaglie del presente a indagare il passato?


«Il giornalismo vive anche di occasioni storiche, vicende che richiamano all’opinione pubblica avvenimenti che segnano il tempo. Ho pensato che fosse un’occasione straordinaria il centenario della rivoluzione per misurare le distanze e le persistenze di quello che è successo cent’anni fa. All’inizio ho pensato al reportage per il giornale, non al libro e al teatro. L’idea era di pubblicare un articolo al mese lungo tutto il 2017, un articolo per ogni mese del 1917 che ripercorresse la tappe e i personaggi della rivoluzione, con una fuga in avanti solo per il capitolo finale sul massacro dei Romanov, che avvenne nel luglio del 1918».


I Romanov, la «corte immobile» come la definisce, un esempio di come il potere possa essere lontano dai bisogni della gente. Com’è potuto succedere?


«C’era una sorta di insensibilità politica, sociale e anche umana da parte della corte, che non si rendeva conto del precipizio in cui stava precipitando la Russia. La zarina è immobile perché presa in un esercizio di potere malato verso le divinazioni di Rasputin, lo zar perché pensa che la podestà ricevuta dal padre sia eterna e data per sempre, e che lui la trasmetterà così come l’ha ricevuta a suo figlio. E, come provo a raccontare nel libro, tutto ciò nonostante ci siano segnali ripetuti dall’interno del clan dei Romanov a riprendere il controllo degli affari di Stato. Segnali pressanti ci sono anche da parte della Duma che in extremis si appella allo zar, dicendo qui si gioca il futuro della Russia e della Corona. Il manifesto firmato dallo zar per un governo provvisorio con “la fiducia del Paese” arriverà troppo tardi. Insomma a dispetto dei tanti segnali, dei richiami, degli appelli, la dinastia non si rese conto di quello che stava bollendo nella pentola di Pietrogrado, perse il controllo della città, e poi perse tutto. In questo la figura dello zar ha una sua modernità».


In che senso modernità?


«Perché lo zar è una figura che vive spostata rispetto al suo tempo, fatica ad entrare in sintonia con la realtà. Ed è un personaggio amletico, che attrae perché c’è un mistero, ti chiedi come possa non capire, viene quasi da dargli una spinta. E poi dimostra una sorprendente capacità di adattarsi alle ristrettezze in cui è costretto a vivere perdendo via via agibilità per sé e per la propria famiglia nella Casa a destinazione speciale, quando gli fu persino proibito di fare esercizio fisico, potendo uscire una sola volta al giorno e per non più di un quarto d’ora. Però lo zar si adatta, sembra che lo smarrimento della corte più sontuosa del mondo per lui non sia un problema, pur di stare con la sua famiglia, pur di continuare a fare il padre e il marito».


Qual è il portato, l’eredità più diretta della rivoluzione nella Russia di oggi?


«Parlando con gli amici russi, quando si andava a cena dopo il lavoro, ho avuto sempre la netta impressione che la Russia di oggi voglia lasciarsi alla spalle il passato. Sono appena usciti dalla corazza dei settant’anni del sovietismo, vogliono superare il passato, compreso il passato presovietico. Nello stesso tempo ti accorgi quanto sbagliamo a considerare l’anima imperiale come un prodotto dello stalinismo e della sovietizzazione, perché quest’anima imperiale in realtà è preesistente alla rivoluzione e all’Unione sovietica, e in quanto tale è eterna. Se vogliamo cercare una persistenza tra il 1917 e l’oggi, dobbiamo renderci conto che gran parte del consenso che ha Putin, nonostante il pugno di ferro usato con le opposizioni e i metodi autoritari che usa all’interno, sono un portato che ha risvegliato l’anima imperiale della Russia, il consenso verso chi ha riportato la Russia tra le grandi potenze del mondo. Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo smembramento dell’Unione Sovietica noi pensavamo che la Russia sarebbe rimasta confinata al rango di potenza regionale, e invece...».


Quali segni della rivoluzione sono rimasti nei luoghi che ha visitato?


«È stata un’emozione camminare nei boschi della reggia di Tsarsko Selo, cercare l’uscita secondaria del palazzo dove la famiglia partirà per Tobol’sk, dove Nikolaj abbracciò per l’ultima volta suo fratello Mikhail, con lo zar che teneva tra le dita il bottone del granduca come non volesse lasciarlo andare... oppure andare alla stazione di Pskov, dove i ferrovieri ti raccontano quello che i vecchi capistazione hanno raccontato a loro, e cioè che per precauzione il treno dello zar si fermò al chilometro 1,8. E lì, oggi, il binario 1,8 appare come una visione di cento anni fa. Non c’è una macchina, non c’è una casa, c’è solo una garitta di legno, la stessa di allora, per controllare i binari nella neve. Camminando fra quei binari hai l’impressione di osservare lo stesso paesaggio, di vedere lo stesse cose viste dallo zar in fuga cento anni fa».


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