Fabrizio Plessi: «Sono un Ulisse dell’arte sogno un’installazione sul vento di Trieste»

l’intervista
Giovanna Pastega
«Dico sempre che sono un navigatore solitario in mezzo a questo mare dell’arte sempre in tempesta… ma io sto saldamente attaccato al mio timone e so dove andare». Così racconta di sé e della sua vita Fabrizio Plessi, tra i più celebri esponenti della video-art, emiliano di origine ma veneziano d’adozione, che con le sue istallazioni raffinate e potenti dagli anni’70 ad oggi ha saputo raccontare con grande vigore evocativo le sue visioni digitali in perenne fluire tra passato, presente e futuro: architetture interiori tra natura, scultura e tecnologia.
In questo 2020 travolto dallo tsunami-coronavirus, durante la quarantena Plessi ha festeggiato i suoi 80 anni e per questo ha deciso di sfidare il lockdown lavorando a ben 120 nuovi progetti artistici. Tra quelli on line “Plessi, progetti dal mondo”, una sfida alle nuove generazioni lanciata su Instagram: mini racconti per immagini (musicati da Michael Nyman) della durata di un minuto, dedicati a 44 città del mondo che hanno ispirato l’artista nel suo lavoro. «In un momento in cui tutti siamo relegati in casa o comunque confinati – spiega – ho pensato che viaggiare sarebbe stata una grande esperienza da condividere emozionalmente, un’occasione per parlare d’arte a tanti giovani. Sono molto contento – sottolinea Plessi – di aver utilizzato il mio linguaggio di sempre adattandolo ad una nuova tecnologia, un artista ha il dovere di ricercare tutti i mezzi necessari per comunicare nei modi e nei tempi richiesti dall’epoca in cui vive. Le installazioni che realizzo necessitano di un grande lavoro di ingegneria, di progettazione, di suono, d’immagine e filmico; tradurre questo lavoro su Istagram è stato come di colpo farlo diventare evanescente, leggero, quasi telegrafico».
Come ha reagito al lockdown?
«Il Coronavirus è un’onda anomala che ci è capitata davanti, dobbiamo avere il coraggio e la forza di superarlo con energia ed entusiasmo. Io sono un ottimista, parto sempre dal presupposto che l’arte è l’unica cosa che ci può salvare la vita. Per me è sempre stato così. Di fronte a questi disastri epocali deve partire la controspinta alla creatività, l’unica che ci può dare una visione del futuro. Questa chiusura mi ha dato la forza per lavorare come non avevo fatto da anni, visto che in genere sono sempre in giro per il mondo. Sono rimasto a casa e ho cominciato a fare un grande viaggio dentro me stesso».
Tra i progetti che ha ideato in questi mesi qual è quello che l’appassiona di più?
«Sicuramente “L’età dell’oro”, la grande mostra che partirà in concomitanza con la Mostra del Cinema di Venezia a fine agosto. Piazza S. Marco, come accadde vent’anni fa con l’altra mia installazione Waterfire, ospiterà nelle finestre dell’Ala Napoleonica grandi cascate d’oro, fluide, dinamiche, elastiche, in dialogo continuo con l’oro della Basilica di San Marco. Poi a novembre il progetto si sposterà a Ca’Pesaro dove avrò a disposizione l’intero palazzo per una grande installazione tutta giocata nel doppio registro del nero e dell’oro. In questo momento così difficile in cui c’è estremo bisogno di futuro, di ritrovare il sogno, la poesia, l’emozione, in una parola, l’età dell’oro, le mie acque, i miei fuochi, diventano oro. In questo modo voglio restituire a Venezia, città che amo profondamente e che mi ha ospita da quando avevo 15 anni, le emozioni che mi ha regalato».
Che cos’è per lei Venezia?
«È uno stato d’animo, non è una città come le altre. Lavorare qui è assolutamente diverso che a Berlino, New York, Londra. Venezia ha qualcosa di impalpabile. Io avevo linguaggio artistico e Venezia me lo ha strutturato, ha dato una grammatica alla mia visione del mondo. Lavorando qui è come se viaggiassi stando sempre fermo in questo luogo magico».
Tra i tanti progetti, ce n’è anche uno per Trieste?
«Sicuramente rifarei volentieri Laguna Nera proposta nel 2006 alla galleria Planetario, perché questa installazione non l’ho mai più realizzata e la vorrei ingrandire. Io amo moltissimo Trieste perché ha quest’aria speciale, questo vento che muove tutto. C’è un luogo poi, l’ex Pescheria, in cui mi piacerebbe progettare una grande installazione dedicata proprio al vento, uno degli elementi più impalpabili e più forti che esistano: un’opera sul vento di Trieste».
Altre idee per il futuro?
«Mi piacerebbe fare anche qualcosa al Lido di Venezia, dove il mare incontra la laguna. Chissà, vedremo».
L’emozione più grande che ha provato?
«Sicuramente il famoso concerto di Pavarotti al Central Park a New York per il quale ho fatto la scenografia. Era il 1993 e ho avuto l’idea di utilizzare i led luminosi, che all’epoca erano una novità».
Lei si è definito un navigatore, una sorta di Ulisse.
«A Venezia, quando si vuole che tutto stia tranquillo e calmo, si usa dire “no sta far onde”. Ecco, io invece sono uno che vuole fare onde. Io amo il movimento, muovere le acque, mentalmente e metaforicamente». —
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