Fece bene l’Italia matrigna a chiudere il cantiere San Marco negli anni ’60
Paolo Fragiacomo ricostruisce in un saggio pubblicato da Franco Angeli le scelte politiche ed economiche che a Trieste indusse l’Iri a quei drastici tagli

TRIESTE Fu cosa giusta chiudere nella seconda metà degli anni’60 il glorioso cantiere San Marco, produttore di grandi e belle navi? Sì, fu una decisione giusta perché il piano Cipe, che portò il nome del sottosegretario democristano Giuseppe Caron, aveva correttamente compreso che lo stabilimento era fuori tempo dal punto di vista dimensionale e logistico, perdeva una fortuna, manteneva un organico sovradimensionato e sottoutilizzato con un’età media elevata e con un assenteismo cronico.
Il decantato transatlantico “Raffaello”, ultimo maturo frutto di una nobile tradizione di costruzione navale, venne completato con un “rosso” di 529 milioni. A modesta, il gemello “Michelangelo”, varato a Genova-Sestri, lasciò sul selciato addirittura il doppio. Il settore, nel suo complesso, era ritenuto dall’Iri una «spina nel fianco», con cui dover convivere per motivi molto sociali, molto politici, poco economici. Il gioco politico, con il portato nell’ottobre 1966 dei più gravi incidenti di piazza che avessero interessato Trieste dai tempi del Gma, ebbe aspetti strumentali e pretestuosi, a prescindere dagli schieramenti – il centrosinistra, gli ultimi bagliori liberalnazionali, la sinistra comunista – che si fronteggiavano. Ma che trovavano trasversali convergenze. Dietro a quel gioco, con differenti tonalità, allignavano alcuni caratteristici aspetti della pubblica mentalità triestina, risalenti già alla prima “redenzione”: il “diritto al risarcimento” da parte dell’Italia, per la quale Trieste aveva sacrificato la dovizia asburgica, e, come la definiva Enzo Bettiza, l’ “ideologia della delusione”, cioè il lamento verso un’ingrata madrepatria poco incline a riconoscere (e a spesare) i meriti giuliani.
Ma che senso ha ricostruire oggi svolgimenti sociali e politici accaduti dal 1966 al 1975? Paolo Fragiacomo, giornalista e saggista esperto di storia della cantieristica, autore del libro “Italia matrigna. Trieste di fronte alla chiusura del cantiere navale San Marco (1965-1975)” (Franco Angeli) è sicuro che non si tratti di un accademico scavo archeologico. Il suo libro, a principiare dal provocatorio titolo, farà discutere e forse arrabbiare. La sua attualità poggia su una doppia serie di ragioni. La prima è economica: per quanto possa apparire paradossale, proprio quella dolorosa, tormentata, prolungata, costosa riorganizzazione della navalmeccanica giuliana e nazionale ha finito con il produrre gli odierni risultati che collocano Fincantieri ai vertici mondiali delle costruzioni marittime. Monfalcone è il più grande “squero” continentale e dal modello organizzativo Italcantieri è sorto un centro progettuale di alto profilo. Persino la GmT formato-Wärtsilä evidenzia performance industriali impensabili nella vecchia “Grandi dolori” formato-Iri.
La seconda ragione è politica: Fragiacomo ritiene che le tensioni dell’autunno 1966 abbiano contribuito a creare le premesse della Lista per Trieste. Certo, il motivo principale della protesta triestina a metà anni’70 fu il trattato di Osimo, ma le linee fortemente critiche nei confronti dell’establishment nazionale erano già leggibili ai tempi del San Marco. Nel dicembre’66, due mesi dopo i gravi incidenti, la rivista “Umana” pubblicava un documento «per la vigile difesa degli interessi di una città esposta da troppo tempo all’arrembaggio delle improvvisazioni politiche e del cattivo servizio alla Patria». A firmarlo, tra gli altri, Manlio Cecovini e Aurelia Gruber Benco.
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