Federico Rampini: «Racconto Trump a ritmo di blues»

TRIESTE Donald Trump, un soggetto teatrale piuttosto appetitoso, come lo fu Silvio Berlusconi per il musicista Michael Nyman. Chi veste i panni d’artista in questo caso è Federico Rampini, una delle più autorevoli firme di Repubblica, che dal suo ultimo libro ha tratto lo spettacolo “Trump Blues, l’età del caos”, martedì al Teatro Orazio Bobbio alle 20.30. Un’operazione che intende ripercorrere non solo le circostanze di un’elezione inaspettata, ma soprattutto i suoi effetti e gli strumenti per far trionfare un certo tipo di populismo. «La stessa musica dello spettacolo – confida il giornalista – l’ho fatta scegliere al presidente degli Stati Uniti. La maggior parte dei brani, dai Rolling Stones a Simon&Garfunkel, sono quelli che lui usò all’inizio dei suoi comizi». Con lui sul palco il figlio Jacopo, attore negli Stati Uniti, per destreggiare il presidente più controverso d’America. Ma è una la domanda centrale: perché? Perché Donald Trump ce l’ha fatta? «Perché il tradimento delle élites genera mostri», dice Rampini.

Cosa significa portare il giornalismo a teatro?
«È un arricchimento del mestiere di giornalista e scrittore. Il teatro è un linguaggio caldo, la comunicazione col pubblico è diretta, forte, intensa, piena di emozioni. Fare teatro è una battaglia di resistenza contro la dittatura dei social media. Sui social media fingiamo di essere amici con degli sconosciuti. O magari insultiamo, al riparo dallo pseudonimo, chi non la pensa come noi. A teatro si recupera uno spazio di discussione civile, di approfondimento, di rispetto dell’altro».
Com’è nata l’idea di questo spettacolo?
«Appena Trump è diventato presidente ho avuto la prova (tragica) delle analisi che io facevo da tempo sugli errori della sinistra, americana o europea. Ne avevo già scritto in due libri, “L’Età del Caos” e “Tradimento”. Trump è un soggetto enorme di per sé, ma oltre a raccontarlo uso questo spettacolo per capire dove hanno sbagliato i suoi avversari. Perché la classe operaia in America e in tutta Europa vota sempre più spesso a destra? I lavoratori sono stupidi? O invece hanno capito che la sinistra gli ha voltato le spalle? Io sono andato a trovarli, i suoi elettori, un anno dopo. Li ho intervistati, e nello spettacolo ci sono anche loro. Per niente pentiti! ».
Trump, per svariati motivi, si addice a essere un soggetto da spettacolo. Lei di che ruolo lo investe?
«Rispondo al plurale perché mio figlio Jacopo che fa l’attore in America, qui ha un ruolo decisivo. Cerchiamo di non trasformare Trump in una caricatura grottesca. È facile rifugiarsi nella demonizzazione, nell’invettiva. Il personaggio è davvero mostruoso, soprattutto per il suo narcisismo egomaniaco, la menzogna sistematica, l’offesa dell’avversario. Ha però un istinto micidiale nell’intuire gli errori dei suoi avversari. Sa parlare alla pancia di un’America profonda. Io mi sono imposto un esercizio che pochi intellettuali radical chic osano fare. Ho viaggiato per 9. 000 chilometri dentro quella provincia americana dove di solito non andiamo. Sono andato alle radici del trumpismo, lo racconto nello spettacolo».
Un fatto curioso, di questa presidenza, è che in Italia è stata accolta come evento inaspettato. Davano per scontata la vittoria del suo rivale. Come se lo spiega?
«Anche in America è stata una sorpresa, lo stesso Trump non se lo aspettava. Da una parte i sondaggi hanno sbagliato clamorosamente. D’altra parte la sua è stata una quasi-sconfitta, Hillary Clinton ebbe tre milioni di voti in più, ma concentrati nelle circoscrizioni sbagliate, dove cioè i democratici hanno stravinto. Lui ha fatto il miracolo grazie alle tortuosità della legge elettorale americana. Ha vinto per una manciata di voti in cinque Stati-chiave, dal Midwest alla Pennsylvania. Classe operaia, per l’appunto».
Nel suo spettacolo ci informa anche come non sia improbabile una rielezione. È davvero possibile?
«Tutto è possibile! In questo momento lui ha un indice di popolarità bassissimo. A novembre votiamo per le legislative di mid-term, che si tengono sempre a metà mandato presidenziale. Prevedo una sconfitta dei repubblicani. In passato però è successo di frequente: il presidente in carica viene castigato a metà termine, poi si riprende e vince la rielezione. Io in realtà la ritengo poco probabile, ma non impossibile. Soprattutto se l’economia continua ad andare a gonfie vele».
Michael Ledeen aveva dichiarato che per Washington l’Italia oggi non conta nulla. Qual è la sua opinione sul rapporto Italia-Usa?
«Gli stessi americani che ci prendevano in giro quando Berlusconi era al governo oggi dicono: avremmo dovuto studiare il caso italiano! Oggi ci guardano con tale attenzione che qualcuno ha riscoperto perfino Gabriele D’Annunzio come il profeta di tutti i nazional-populismi da un secolo ad oggi. Nello spettacolo racconto anche questa paradossale rivalutazione dell’Italia come laboratorio politico».
Se dovesse riscrivere il testo riuscirebbe a individuare almeno un elemento positivo di questa nuova faccia americana?
«Ma il testo noi lo riscriviamo ogni sera! Con questo presidente ci sono colpi di scena a ripetizione, dobbiamo inseguirlo. Elementi positivi ne vedo più d’uno, e avviso il pubblico: questo è uno spettacolo che può creare disagio perché osiamo sfidare il politically correct. Alcune cose che Trump dice sull’immigrazione o sulla globalizzazione, un tempo le diceva la sinistra…».
Che dice delle fake news?
«Che sono sempre esistite. Io sono nato nel 1956, anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria. La stampa comunista raccontò che la rivolta del popolo ungherese era una contro-rivoluzione borghese sostenuta dall’America. Fake-news! Tanti uscirono dal Pci perché non tolleravano la menzogna. Io mi iscrissi al Pci 18 anni dopo, e nel frattempo c’era stata un’autocritica. Ma le menzogne non nascono coi social media. Ogni tanto sembra che il mondo sia nato ieri, che ogni bene e ogni male siano legati alle nuove tecnologie. Ridicolo. Se vogliamo credere alle streghe, ci crediamo anche nel Medioevo, non c’è bisogno di Twitter o Facebook».
Quali sono gli elementi con cui è riuscito a tradurre il codice cronachistico in artistico?
«Facendomi aiutare dai professionisti dello spettacolo. Mio figlio Jacopo che viene dall’accademia teatrale newyorchese, e due fantastici musicisti che sono Valentino Corvino e Roberta Giallo, più il regista Angelo Generali. Non mi piace il dilettantismo, mi lascio guidare da chi fa spettacolo per mestiere».
Lei scrive che Trump rappresenta il trionfo di un populismo anti-establishment che ha ragioni profonde. Quali?
«Le élite hanno ingannato i cittadini sulla globalizzazione, promettendo che ci avrebbe reso tutti più ricchi. Non è andata così. La globalizzazione ha arricchito la Cina e altre nazioni emergenti. Là c’è stato un progresso inaudito, senza precedenti nella storia per le sue dimensioni. Ne conosco i prezzi umani, sociali, ambientali, perché ho vissuto 5 anni a Pechino. Ma non si può negare la creazione di benessere per centinaia di milioni di persone. In Occidente si concentrano i perdenti. Da noi i benefici della globalizzazione sono stati sequestrati da un’oligarchia del denaro. Un discorso simile lo faccio sull’immigrazione, anche in questo caso le élite hanno dipinto la società multietnica come un paradiso. Non lo è».
L’America di oggi pare un quadro sfasciato da una democrazia moribonda e dall’autoritarismo. Speranze per il futuro?
«Certo. La speranza è nella nostra intelligenza. Capire dove abbiamo sbagliato, per rimediare. Questo spettacolo è una scommessa sull’intelligenza del pubblico italiano. So che la vincerò».
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