Fiorucci, rivoluzione “dada”

Da domani a Ca’ Pesaro di Venezia l’omaggio al mondo dello stilista amico di Dorfles

Il Duchamp della moda italiana: così Gillo Dorfles, il celebre critico d’arte, pittore e filosofo triestino, aveva definito nel corso di un’intervista pochi mesi prima di morire il suo caro amico Elio Fiorucci, considerandolo il più “dadaista” tra gli stilisti italiani proprio per la sua straordinaria capacità di trasformare le suggestioni tratte dal quotidiano, dalla “strada”, dal mondo reale, in un linguaggio “artistico” e imprenditoriale in grado di trasformare un’epoca. Alla rivoluzione Fiorucci e al “caos ordinato” della sua inestinguibile visione creativa i Musei Civici Veneziani hanno dedicato a Ca’Pesaro la mostra “Epoca Fiorucci”, curata da Gabriella Belli e Aldo Colonetti, che resterà aperta da domani sino al 6 gennaio prossimo. Più che un’esposizione, la si potrebbe definire una mostra “prêt-à-porter” nel senso letterale, una mostra cioè “pronta da indossare”, capace di ricreare le atmosfere dei famosi “store” ideati per Fiorucci da celebri architetti, designer e artisti (dal primo creato a Milano nel 1967 a quello newyorkese degli ‘70) e di lasciarti addosso il sapore di un universo mobile, geniale e multiforme.

«Il fenomeno Fiorucci – spiega Gabriella Belli direttrice del Muve – non riguarda solo il mondo della moda, ma anche la società: quando negli anni ’70 lo stilista milanese lancia la sua idea di moda “democratica” proponendo in un periodo particolarmente buio della nostra storia la sua creatività, i suoi colori, la sua estrosità elegante, il suo kitsch raffinato, rinunciando di fatto al culto della personalità legato all’alta moda, la sua diventa un’operazione culturale assolutamente innovativa che segnerà il gusto e il costume dei decenni successivi. Il suo raccogliere spunti, elementi, tessuti, oggetti sia dal basso che dall’alto della società un po’ in tutti i paesi del mondo e il suo decontestualizzarli in un’operazione che si avvicina molto al gesto artistico per restituirli all’uso di tutti è senza dubbio – continua Gabriella Belli – una sorta di rivoluzione».

Proprio per l’amicizia, la stima e la frequentazione assidua tra Fiorucci e Gillo Dorfles, da pochi mesi scomparso, la mostra veneziana è stata dedicata all’intellettuale triestino che ebbe il merito di sdoganare la moda, il cinema e i diversi fenomeni culturali del nostro tempo all’attenzione dei critici d’arte e dei musei. «Fiorucci e Dorfles abitavano vicini – spiega Aldo Colonetti – a poco più di 500 metri, nei pressi di Porta Venezia a Milano. Tra i due si era creata quell’affinità elettiva che pur nella diversità di formazione, cultura e esperienza professionale, si crea solo tra le persone animate dalla stessa curiosità per la vita e dalla medesima ricerca appassionata delle infinite declinazioni della realtà quotidiana. Fiorucci è stato un uomo assolutamente generoso, aperto e al contempo rigorosissimo, quasi teutonico nel suo modo di lavorare. La sua lunga collaborazione con Oliviero Toscani, che imposta le sue prime provocatorie campagne pubblicitarie che lo lanceranno nel mercato, apre la visione di un arcipelago - umano e imprenditoriale - complesso e multiforme che sfugge alle definizioni. Elio – continua Colonetti - era unico da tutti i punti di vista. Figlio di un commerciante di pantofole milanese riesce a intercettare negli anni ’60 la Londra delle boutique-bazar di Mary Quant e degli innovativi grandi magazzini Biba. È il primo a chiamare a collaborare nella moda i grandi architetti, come Ettore Sottsass, Aldo Cibic e Michele De Lucchi. È anche il primo a collaborare con artisti come Haring e Basquiat, poi divenuti delle leggende del graffitismo statunitense. È anche il primo al mondo a costruire a Milano uno spazio aperto dalla mattina alla sera, in cui chi entrava poteva comprare, mangiare o semplicemente leggere il giornale, idea ancora attualissima. La sua non fu solo una rivoluzione nella moda, ma anche nel modo di intendere il linguaggio del consumo e delle merci».

La mostra, allestita dall’architetto Paolo Baldessari come una sorta di grande grande mercato delle idee e delle cose, con l’intento di mettere in luce legami, relazioni ed esperienze dello stilista, mira anche a restituire il sapore di un’epoca che sembra non essersi mai interrotta. Ecco così gli outfit anni ’80 pieni di humour, ecco l’allegria cromatica dei suoi “store” perfettamente ricostruiti, ecco le sue originali vetrine concepite come dei “tableaux vivants”, ecco le maglie colorate, gli zoccoli di legno, i pullover over-size, i jeans ricamati e attillatissimi, i vestiti stampati e le tute in tessuto di carta o gli indumenti in latex e persino i monochini. Un turbinio di colori, oggetti, richiami, che ci porta lontano e al contempo sembra essere assolutamente dentro di noi, perché – come disse Fiorucci – «Moda per me significa i diversi modi di vivere il proprio corpo, le proprie abitudini, così che ciascuno sia in grado di essere se stesso».©RIPRODUZIONE RISERVATA

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