“Flashpoint Trieste” la prima battaglia della Guerra Fredda

In un saggio pubblicato dalla Leg Christian Jennings racconta l’immediato dopoguerra nella Venezia Giulia
Gli storici concordano nell’individuare nella Trieste dell’immediato dopoguerra, fra l’estate 1945 e l’autunno 1954, uno dei primi focolai della nascente Guerra Fredda. Ciò che accadde sin dai primi giorni del maggio 1945, con i prodromi e gli effetti della cosiddetta “corsa per Trieste”, che contrappose truppe alleate e partigiani jugoslavi, è un tale groviglio di fatti tale da continuare a fornire abbondante materia di studio e di analisi per gli storici. In quei giorni a Trieste «questo confronto, questa idiosincrasia fra Alleati e jugoslavi, annunciò l’inizio della Guerra Fredda nel Sud dell’Europa. In esso c’erano già presenti tutti gli elementi tipici della guerra che avrebbe contrapposto Est e Ovest nei cinquant’anni successivi. C’erano l’elemento sublime, quello assurdo e quello letale: il confronto geostrategico di massima incertezza, il compromesso della
realpolitik
aspro e a volte carico d’odio, la guerra tra spie combattuta in luoghi segreti e indefinibili, momenti di fraternizzazione quasi amichevole».


Lo scrive il britannico
Christian Jennings
, storico e giornalista freelance, già corrispondente dai Balcani e dall’Africa ed esperto in crimini di guerra, nel suo libro
“Flashpoint Trieste - La prima battaglia della Guerra Fredda”
appena pubblicato dalla
Libreria Editrice Goriziana (pagg. 302, euro 24,00, traduzione di Rossana Macuz Varrocchi)
. Studioso di penna e d’azione, Jennings in un lungo racconto appassionante e stringente - anche se non privo di qualche errore e approssimazione - ricostruisce il primo dopoguerra a Trieste attingendo non solo agli archivi italiani e triestini, ma soprattutto alla bibliografia e agli archivi anglosassoni. Ed è un bene, perché osservare i fatti attraverso l’azione e le testimonianze - ad esempio - degli uomini e le donne del Soe, Speciale Operation Executive, e dell’Oss, Office of Strategic Services, aggiungendo particolari di storia militare (reparti in lizza, armamenti, ecc.), permette all’autore di entrare in dettagli tutt’altro che trascurabili anche nell’ottica della storia diplomatica. Oltre a imbastire un saggio intrigante come un thriller.


Jennings non tralascia nulla nell’ampia disamina di quel “punto d’infiammabilità”, o punto focale, che fu Trieste fra il ’45 e il ’54. A partire dalla corsa per Trieste, al termine della quale soldati neozelandesi e partigiani jugoslavi si trovarono faccia a faccia, e «con grande sorpresa degli jugoslavi (...) alcuni di quei kiwi robusti e polverosi parlavano loro in serbo-croato (...) retaggio dell’esodo dalla Dalmazia alla Nuova Zelanda avvenuto negli anni Venti». Questo non eviterà un confronto a volte durissimo soprattutto nelle prime ore. Come quando una compagnia del 22° Battaglione neozelandese arrivò con i carriarmati al castello di San Giusto per accogliere la resa dei tedeschi là asserragliati: «Partigiani e soldati jugoslavi, intenti a sparare contro il castello, minacciarono di spostare il fuoco sugli Alleati se avessero tentato di varcare i cancelli». I neozelandesi andarono avanti, ed entrarono nel castello dove c’erano «solo 170 soldati e 12 ufficiali tedeschi» che si arresero subito. Anzi, si offrirono di unirsi ai soldati alleati per combattere contro gli jugoslavi che incombevano all’esterno. «Con un ironico colpo di mano di quelli che si verificano a volte nel corso di una guerra - scrive Jennings -, quella notte neozelandesi e tedeschi si ritrovarono a montare di guardia insieme sulle mura del castello».


Il racconto di Jennings è a tutto campo, da un focus su Tito e sulle foibe, a personaggi emblematici come Norma Cossetto e Ondina Peteani, al ruolo svolto dall’Ozna. Dettagliato, per esempio, il capitolo sugli ultimi giorni di Reiner e Globocnik in fuga da Trieste - con un bottino di lingotti d’oro e preziosi oggetti d’arte razziati agli ebrei di mezza Europa -, e su come e da chi Globocnik venne stanato dal suo rifugio prima di uccidersi con il cianuro.


Non manca però qualche grossolano errore, come per la strage di via Ghega, avvenuta secondo l’autore con il lancio di due bombe a mano da un’auto passata accanto a cinque soldati tedeschi (pag. 104), e qualche forse inevitabile approssimazione, vista l’analisi a così ampio spettro. Ma nel complesso il saggio di Jeggins offre un vivace e articolato quadro d’insieme del “flashpoint” Trieste, città le cui vie acciottolate - per la sua complicata storia - «erano testimoni di secoli di imbrogli di ogni genere», e dove adesso, all’alba della Guerra Fredda, «alla fine le diverse fazioni militari e di spionaggio si trovavano a chiedersi chi fosse alleato di chi, chi combattesse contro chi, chi spiasse chi e perché e con quale scopo».


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