Franco Moretti, iconoclasta come Nanni «La letteratura studiata con gli algoritmi»

Docente a Losanna, star accademica, fratello del regista. Domani, all’Università, parlerà di “Digital Humanities”



Accorrere in Androna Baciocchi per vedere Moretti. Ma non il regista, ovvero suo fratello Nanni, bensì Franco, quello più famoso. Lui però nell'ambito delle letterature comparate, una vera star accademica globale. I Moretti, contigui per età - Franco, è nato nel 1950, Nanni è tre anni più giovane - sono fratelli siamesi d'intelletto. Il regista, in quanto iconoclasta della borghesia di sinistra trafitta con il fioretto dell'ironia in tanti suoi film, dove anche Franco si è prestato talvolta come comparsa. Il docente di Stanford, iconoclasta della critica letteraria, a sua volta ha messo a punto filoni di ricerca innovativi, quali il "distant reading" e l'"informatica umanistica" di cui tratterà domani, alle 17, all'università (ingresso libero), nella lezione intitolata "La simulazione: un nuovo modo di studiare la letteratura?".

Professor Moretti, cosa sono le Digital Humanities? Quando e come ha cominciato ad applicare questo metodo alle sue ricerche?

«Digital Humanities è un’etichetta sciapa e pomposa, che si è imposta solo perché è stata adottata una dozzina di anni fa da un ramo del National Endowment for the Humanities, che è l’ente che finanzia le discipline umanistiche negli Stati Uniti. Che la decisione sul nome di una categoria teorica venga fatta da chi ha in mano i cordoni della borsa è un segno dei tempi - un pessimo segno. Personalmente, preferisco parlare di storia letteraria quantitativa o di critica computazionale, perché almeno si capisce un po’ meglio di che si tratta. Ma le parole importano fino a un certo punto. Io ci sono arrivato 20-25 anni fa, lavorando all’"Atlante del romanzo europeo", quando cominciai a creare delle modeste serie quantitative. Poi ci ragionai su più a fondo nella "Letteratura vista da lontano", che è stata talvolta considerata uno dei lavori all’origine di questo tipo di studi».

Analisi computazionale e letteratura. Non sembrano due mondi inconciliabili?

«Più di biologia e uccelli del paradiso, o astrofisica e notte di San Lorenzo? No, non sono inconciliabili: la letteratura è fatta (anche) di elementi regolari, che è possibile formalizzare e quantificare. Quello che chiamiamo “forma” è appunto l’aspetto ripetibile della letteratura - e ovunque c’è ripetizione c’è la possibilità di studiarla con degli algoritmi. Detto questo, e detto anche che l’analisi computazionale può aprire nuove strade allo studio letterario, ci si può chiedere se lo abbia fatto davvero, o sia rimasta una grande promessa non mantenuta, o non appieno. Al momento, io propendo per la seconda ipotesi. I miei colleghi delle Digital Humanities si arrabbiano, e continuano a parlare di tutto ciò che si può fare; io invece penso che si debba anche cominciare a osservare sobriamente quello che si è fatto, e constatarne la modestia. Solo se si riconoscono gli errori si può andare avanti».

Lei ha insegnato alla Stanford, a Berlino, ora a Losanna. A che punto sono questi studi nel nostro Paese?

«Onestamente, non saprei. Ma non ho ben chiaro il panorama internazionale. Negli Stati Uniti la cosa ha avuto un certo successo (pur se, ripeto, con risultati finora modesti). In Europa, mi pare che la realtà sia spaventosamente frammentata, il che è un guaio, sia in sé, sia perché apre la strada, anche in questo campo, a un immeritato predominio nordamericano».

L'università, la ricerca, in Italia boccheggiano per i continui tagli ai finanziamenti. Eppure come reputazione accademica siamo ben piazzati nelle classifiche. Un miracolo?

«Mah, sa, la reputazione è una cosa che varia a seconda dell’interlocutore. Io conosco un po’ il sistema con cui vengono valutate le università americane, e non lo prenderei gran che sul serio. In Europa, il meccanismo dei “centri d’eccellenza” - dove sulla base di differenze minime si creano diseguaglianze massime - è anch’esso un pessimo segno dei tempi: straricco, paludato, e scientificamente coi piedi d’argilla. Intendiamoci, non voglio dire che l’Italia non abbia un’ottima reputazione; ma alle classifiche non baderei più che tanto. Tanto vincono sempre Harvard e la Juventus. Altro che miracoli».

Che differenze riscontra nella preparazione tra i nostri studenti e quelli anglosassoni?

«Stanford e Columbia sono punti d’osservazione troppo privilegiati per generalizzare. Ragionando in generale, gli studenti americani entrano all’università sapendone meno di quelli italiani, ma in un paio d’anni hanno colmato il divario, e da allora in poi si allontanano. La ragione è semplice: un sistema universitario che (almeno verso il vertice della piramide) è residenziale e a tempo pieno. Per forza che si impara di più».

Quali film va a vedere e maggiormente apprezza?

«Vivo a Ginevra, non un gran posto per andare al cinema. Ma ho un abbonamento a MUBI, un sito di film d'autore, e nell’ultimo mese ho visto 3-4 Straub e Huillet, coppia di cineasti francesi che coniugano una nuova estetica a un forte impegno politico, altrettanti Haneke, due vecchi film di Ida Lupino, e sto guardando "Pixote" di Babenco. L’ultimo film al cinema, qui in Svizzera, è stato "Santiago, Italia", documentario sulla dittatura di Pinochet, di mio fratello Nanni. Due volte».

E tra i nuovi scrittori italiani e no, ce n'è qualcuno che trova particolarmente dotato e innovativo?

«Mi dispiace, non leggo quasi nulla di letteratura contemporanea. L’ultimo libro che mi ha davvero impressionato è stata l’antologia di "Poeti cinesi contemporanei" edita dall’Einaudi. Ma naturalmente ho letto le traduzioni, e questo per la poesia non è un gran sistema…».



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