Franklin debutta con “Nabucco” «Musica che ha tutte le risposte»

Da venerdì al Verdi di Trieste l’allestimento del teatro Ponchielli di Cremona Il direttore: «Amo “Dio di Giuda”, con poche note un miracolo di naturalezza»



Nella musica di Giuseppe Verdi c’è una “verità” che trascende ogni considerazione tecnica e musicologica e quella “tinta” che il sanguigno compositore bussetano imprimeva come un marchio sulle partiture coinvolge a livello epidermico pubblico e musicisti. L’effetto di una musica bella e sincera è tangibile nei corridoi e nei camerini del teatro lirico triestino, dove è imminente il nuovo debutto: Nabucco, in scena da venerdì a sabato 26 gennaio. Durante l’intervista il direttore Christopher Franklin, che ritorna a Trieste dopo un fortunato Tristan und Isolde, sfoglia la partitura indicando di volta in volta una linea melodica, un passaggio orchestrale, l’attacco del coro, dimostrandoci come qualsiasi risposta alle nostre domande su quest’opera si possa trovare lì, tra i pentagrammi. Quella con Verdi è per lui una frequentazione di lunga data, ma Nabucco è un debutto, che verrà supportato dal maestoso allestimento del teatro Ponchielli di Cremona nella regia di Andrea Cigni ripresa da Danilo Rubeca. Ad esclusione dei melomani, pochissimi sarebbero probabilmente in grado di collegare il Nabucco a un brano che non sia l’iconico coro “Va pensiero”, fatto proprio e decontestualizzato dalle ideologie politiche, dal risorgimento fino a oggi. Ma il Nabucco è molto di più del suo riuscitissimo “inno”...

Maestro Franklin, quali sono le altre hit di quest’opera?

«Alla prima del Nabucco nel 1842 non fu bissato “Va pensiero”, ma il coro finale, “Immenso Jeovah”. Verdi nelle sue lettere fa capire che in realtà avrebbe potuto chiudere l’opera con questo coro di grande effetto, non con la morte di Abigaille. Consideriamo tuttavia che la qualità dell’esecuzione può essere stata piuttosto diversa da quella a cui siamo abituati oggi: all’epoca le opere andavano in scena con poche prove».

Lei predilige...

«Secondo me tuttavia uno dei momenti più belli dell’opera è la preghiera di Nabucco, “Dio di Giuda”. È il classico Verdi che con poche note e un accompagnamento minimalista crea un miracolo di incredibile naturalezza. Trovo splendida anche la sinfonia che incontra immediatamente una scena di massa con una drammaturgia musicale articolata, ovvero Gli arredi festivi, che si sviluppa su ben quattro temi con una struttura geniale».

Con Nabucco nasce il Verdi operista, si fissano i temi della sua drammaturgia e della poetica musicale che lo caratterizzerà negli anni dei grandi successi. Per quale motivo?

«Il Nabucco è legato da una parte a un certo tipo di politica risorgimentale che ha fatto abbracciare al vasto pubblico alcuni titoli verdiani, diventati vessilli ideologici. Dall’altra parte è l’opera della rinascita e della rivincita dopo un periodo devastante per il compositore che aveva vissuto l’insuccesso totale dell’opera “Un giorno di regno” e soprattutto la disgrazia della morte di due figli e della giovanissima moglie nell’arco di pochi mesi. Sembrava che tutto fosse finito e invece accade lo strepitoso successo di Nabucco. Criticato dai compositori di scuola nordica come Otto Nicolai (che oltretutto aveva rifiutato di musicare lo stesso libretto) per presunte debolezze di orchestrazione, rappresenta invece la perfezione nel suo genere».

L’entusiasmo che si sente nel backstage fa pensare a un particolare coinvolgimento in questo studio.

«È un titolo che si ripropone spesso, ma gli orchestrali stessi dicono trattarsi di musica “che fa bene” perchè permette di ritornare a riflettere su questioni musicali basilari. Amo le orchestre italiane perché sanno ascoltare il palcoscenico e riescono a essere molto flessibili e Verdi dà la possibilità di dimostrarlo. Quando interpreti un repertorio come questo in Italia non puoi non emozionarti. Verdi è chiarificatore a livello tecnico e richiede al musicista un maggiore coinvolgimento, quello che si crea quando la scrittura non è prevalentemente sinfonica “nonostante” il palcoscenico, ma inscindibilmente legata al suo essere pienamente operistica, italiana, in dialogo con i cantanti, emozionale». —



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