Franzoso: «Gli anni ’80 in riva al Tagliamento tra sogni e loschi figuri»

“Mi piace camminare sui tetti” è il nuovo romanzo dello scrittore che vive in provincia di Venezia
Di Alessandro Mezzena Lona

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Al frastuono dei salotti televisivi preferisce il silenzio. E quando scrive, Marco Franzoso dimentica il bla bla che gli gira attorno per dare valore alle parole. Racconta storie che mettono a fuoco la realtà, scendono a bagnarsi nel fiume grande della vita, assaggiano il sapore agrodolce del costruire una famiglia, una traiettoria, un senso da dare a ogni nuovo giorno che inizia.

Appartato da sempre nella provincia di Venezia, Franzoso è oggi uno dei migliori scrittori italiani. Dopo un debutto un po’ in sordina con “Westwood dee-jay”, ha raggiunto un successo clamoroso con “Il bambino indaco”, che Saverio Costanzo ha trasformato nel film “Hungry hearts”. Bravissimo a raccontare come una coppia può finire in frantumi quando nasce il primo figlio (“Tu non sai cos’è l’amore”, “Gli invincibili”), nel nuovo, splendido romanzo ha deciso di scandagliare spazi e tempi diversi. Riandando agli anni Ottanta, spostandosi su quella lingua di terra dove le acque del Tagliamento entrano nel Mare Adriatico. Mettendo a fuoco una famiglia dove deflagra come una bomba a orologeria l’infelicità.

“Mi piace camminare sui tetti”, pubblicato da Rizzoli (pagg. 348, euro 19) parte da un’estate di vacanza. Un tempo in cui, tra grigliate, caccia ai granchi, galoppate a cavallo e infiniti bagni di mare, la felicità sembra a portata di mano. Fino a quando, nella famiglia di Bruno e Emma, si insinuano le prime difficoltà. Una scommessa sul futuro che divide mamma e papà, la comparsa di strani personaggi troppo ricchi e sfuggenti, il desiderio di altri orizzonti. E, soprattutto, la morte inevitabile del figlio più piccolo.

«La famiglia è una sorta di microsocietà. La cellula da cui prende forma una realtà più ampia e condivisa - spiega Marco Franzoso -. Dal punto di vista narrativo, fornisce a uno scrittore la possibilità di mettere meglio a fuoco i personaggi. Perché ogni componente, la mamma, il papà o uno dei figli, può mostrare quello che è il suo essere più intimo. Io di solito racconto la famiglia nel momento in cui nasce un bambino. Quindi, uso l’infanzia come un detonatore di conflitti che esplodono subito dopo. Come se quel nuovo ingresso fosse in grado di portare in superficie verità che la coppia stessa non è in grado di cogliere. Il mio diventa quasi un lavoro da chimico. Lavoro su spazi molto ristretti: l’appartamento abitato, il rapporto che si instaura tra di loro».

Il grande scrittore Tommaso Landolfi sosteneva che la famiglia fosse l’incubatrice dei peggiori sentimenti, in un’Italia cattolica che l’ha sempre difesa a spada tratta. «Le violenze sui minori, sulle donne, per l’85 per cento nascono all’interno della famiglia - dice Franzoso -. Eppure, rimane pur sempre il nucleo fondante della società costruito da chi si vuole bene. Quindi è normale che si tenti di difenderla, indicando ancora oggi la famiglia come soggetto da valorizzare. Poi, tocca allo scrittore andare a vedere che cosa sta dietro il sipario, pur senza demonizzare per forza. Io, per esempio, non ho una visione tradizionale. Nel senso che, per me, famiglia è qualsiasi consesso di persone che decidano di vivere insieme».

Nel “Bambino indaco”, diventato presto un caso editoriale e mediatico, l’amore di coppia assumeva i connotati dell’ossessione alla nascita del primo figlio. «Quel libro, come anche “Tu non sai cos’è l’amore” e “Gli invincibili”, si svolgeva in spazi molto ristretti. Di solito in un appartamento. Le storie erano analoghe, venivano innescate dalla nascita di un bambino, poi ognuna prendeva una strada diversa. Adesso, però, ho sentito il bisogno di uscire, di confrontarmi con dimensioni nuove dal punto di vista narrativo: lo spazio e il tempo. Volevo raccontare, insomma, avendo davanti agli occhi un orizzonte grande».

Il romanzo molla gli ormeggi in una zona magica: la foce del Tagliamento. Quella striscia di terra e sabbia sospesa sull’acqua del grande fiume che diventa mare. «L’area attorno a Lignano la ricordo bene, perché l’ho frequentata e amata da ragazzo. Per me, scrivere questo libro è stato anche compiere un viaggio nella memoria. Raccontare le radici della mia generazione. Soprattutto, volevo costruire una saga familiare legata in modo stretto con la Storia. Per capire come siamo cambiati tutti noi negli ultimi cinquant’anni».

Un’epoca innocente, gli anni Ottanta, solo in apparenza. «Gli svizzeri del mio libro, le persone dal denaro facile, li abbiamo visti. Dopo l’assassinio di Aldo Moro, quel tempo ha cominciato a popolarsi di figure ambigue, losche. Era il mondo dei socialisti rampanti, delle televisioni private, delle figure truffaldine che promettevano di rendere il Paese più moderno. Adesso, forse, qualcuno sembra aver dimenticato. E mitizza il passato».

Per Franzoso, la scrittura è sempre stata una passione vera. «Ho cominciato a scrivere da ragazzo - racconta -. Negli anni Ottanta c’erano i primi computer, si potevano già stampare i racconti messi assieme sull’onda dell’entusiasmo giovanile. Poi, però, ho fatto una scelta di vita. Mi sono reso conto che in un’epoca di rumore diffuso avevo bisogno di silenzio. Per trovare il mio posto nel mondo mi serviva spazio. Una vita tranquilla, che non fosse dominata dal caos. Così ho lasciato che fosse la scrittura a fare ordine. Mi sono tirato da parte, scegliendo la provincia».

E le parole, per Franzoso, hanno sempre avuto un senso forte. «Siamo fatti di storie - dice -. Però dobbiamo stare attenti, perché stiamo attraversando un tempo abitato soprattutto da parole effimere. Che hanno la possibilità di vivere qualche ora, pochi giorni al massimo. Credo che il compito dello scrittore sia quello di restituire un valore alle parole. Concedendo loro il tempo di assumere un significato, di sedimentarsi. Per ridare un senso alle cose, alla nostra vita».

E non è a caso che, nei romanzi di Franzoso, i dialoghi funzionano come meccanismi perfetti. «Per me sono la parte più bella della scrittura. Come una partita a scacchi, dove ogni mossa assume un significato preciso». E il cinema? «Lo amo molto, mi sono laureato in Storia del cinema. Però c’è un problema: io scrivo con grande lentezza, finisco per conoscere i miei personaggi fino in fondo. Faccio amicizia, me li immagino, so tutto di loro. Vederli, poi, trasformati sullo schermo in attori veri non è mai un’esperienza facile. Anche se Saverio Costanzo è molto bravo e ha fatto un ottimo lavoro in “Hungry hearts”».

Leggendo i libri di Franzoso, è impossibile non accorgersi del loro andamento. Omaggio autentico alla musica. «Mi ritengo un chitarrista mancato - conferma lo scrittore -. Suono ancora un po’, la musica mi accompagna sempre: indie rock, le canzoni degli Smiths. Ogni volta che mi appresto a iniziare un libro devo costruire la colonna sonora giusta. Mentre scrivevo “Mi piace camminare sui tetti”, sentivo un ritmo che mi pulsava dentro. Scandito da grancassa e charleston. Tam tam tam: era un andamento preciso guidato dalla batteria».

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