Fuggire dalla città e ritrovare se stessi nel malinconico paesello di campagna

ELISA COLONI
Il romanzo della tedesca Dörte Hansen, “Tornare a casa” (Fazi Editore, euro 18,50), ha trovato asilo in queste pagine grazie alla fama che lo ha preceduto, perché in Germania è stato considerato il caso letterario dell’anno. Un libro che ha venduto 400mila copie e ottenuto il plauso dei librai e della critica, tanto da spingere Der Spiegel a definirlo un “evento letterario” e a conquistare recensioni entusiastiche che lo descrivono come un monumento ai piccoli paesi di un tempo, un intenso e nostalgico affresco della vita, dei ritmi e delle tradizioni rurali tedesche. Ed effettivamente, leggendo le sue 312 pagine, non stupisce che questo romanzo abbia avuto così tanto successo nel Paese di origine dell’autrice.
Anche per Hansen scrivere quest’opera ha rappresentato un viaggio a ritroso verso le sue radici, che affondano nella Frisia settentrionale, antica terra morenica, aspra, fredda e sabbiosa, situata ai piedi della Danimarca e modellata dalle correnti del Mare del Nord. Un luogo che, per dirla con le parole del protagonista del romanzo, Ingwer Feddersen, se la cava benissimo da solo, perché “non ha bisogno di nessuno”: il vento è sempre lo stesso, affila le pietre e scuote gli alberi, piega le schiene e non si cura di cosa facciano le persone. La scrittrice è nata in questa terra nordica, nella città di Husum, ed è lì vicino che ambienta la sua storia, nell’immaginaria Brinkebüll. Qui prendono forma le giornate di un microcosmo umano particolare, che rende questo libro un inno alla Heimat, quel concetto identitario di “piccola patria” tanto caro alla narrativa e alla cultura tedesca, ma difficilmente traducibile in italiano.
L’autrice, che non a caso è anche una linguista, attualizza questo concetto adattandolo alla realtà contemporanea attraverso il linguaggio; dà vita a un’opera che non ha una trama originale e avvincente, ma che vuole rendere vividi gli umori del borgo di campagna e la sua evoluzione nel tempo. Nessun dettaglio, nessuna sfumatura sfugge alla penna di Hansen e alle sue lunghe descrizioni della terra d’origine, inquadrata nell’arco di circa mezzo secolo. E il risultato è un’incursione profonda nelle pieghe della terra e nel rapporto tra campagna e città.
A Brinkebüll, Ingwer Feddersen è nato e cresciuto. È figlio di Marret Feddersen, meglio nota come “Marret Fine-del-mondo”, la “svitata” del villaggio che corre tra le vie e i campi con i suoi zoccoli urlando a squarciagola l’arrivo di disgrazie e pestilenze capaci di ribaltare i ritmi che da secoli scandiscono il torpore locale. Una ragazza con problemi mentali che canta e balla scatenata sui ritmi pop, si nasconde in ogni pertugio, parla con gli uccelli e vive la sua personale fine del mondo a soli 17 anni, quando rimane incinta di uno dei giovani ingegneri giunti in paese per la “ricomposizione fondiaria”, che altro non è che l’avvio di quel processo di urbanizzazione che bastonerà la malinconica bellezza del villaggio a colpi di pale eoliche, ruspe e asfalto, dando avvio alla scomparsa di un mondo fino a poco tempo prima apparentemente immutabile. Il destino di suo figlio Ingwer, cresciuto da nonno Sönke e nonna Ella, sembrava già scritto: rimanere, come tutti gli altri, relegato all’interno dei confini del paese, prendendo le redini di Sönke nell’osteria di famiglia, tra casse di birra e serate danzanti a metà tra il folcloristico e il kitsch. Ma, grazie a una certa attitudine per lo studio e per le “pietre”, e complice lo zampino del funereo maestro Steensen (che nella vita del ragazzino si svelerà molto più che una comparsa), Ingwer riesce a superare quel confine: va all’università, e diventa dottore in Archeologia, costruendosi una carriera accademica. A quasi cinquant’anni, però, non sa più chi è e cosa vuole. Vive da più di due decenni un’indefinibile e ambigua relazione con l’amica Ragnhild e l’amico Claudius, con i quali condivide l’appartamento, e capisce che quel tempo è scaduto. Allora decide di prendere un anno sabbatico e torna in paese dai due vecchi della sua vita, Sönke ed Ella, che lui chiama “mamma” e “papà”, orami bisognosi di cure costanti. Il ritorno a casa è non solo un atto d’amore nei confronti dei due anziani, ma è anche la fuga da un’esistenza insoddisfacente e inquieta; una pausa per arrivare a mete nuove. Negli affettuosi gesti, sguardi e dialoghi che animano le giornate dei Feddersen si celano i ricordi dei protagonisti e degli altri abitanti del villaggio, con le loro abitudini che cambiano velocemente con l’arrivo del progresso tanto quanto mutano destini e desideri. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo