Furlanetto, una voce alla conquista del mondo

Trent’anni di carriera per il basso friulano nato a Sacile festeggiati a Vienna, dove è in scena nel ruolo di Banco nel “Macbeth”
Di Flaminio Bussotti

VIENNA. Un grande artista internazionale, probabilmete il migliore basso al mondo, piedi saldi per terra, niente divismo e, nel cuore, il Friuli. Ferruccio Furlanetto, nato a Sacile, una vita in giro per il mondo, acclamato ovunque, è uno di quei nomi che, all’estero, tiene alto il nome dell’Italia: vive a Vienna ma non dimentica le sue origini friulane. In questi giorni festeggia i 30 anni alla Staatsoper ed è Banco in “Macbeth”. Anche l’ambasciata d’Italia lo ha festeggiato con un grande ricevimento. Alla prima il 4 ottobre e a ogni recita è lui la star. Il pubblico lo adora: «Furlanetto è il basso numero uno al mondo, una leggenda», dice il sovrintendente Dominique Meyer.

Ha debuttato a Vienna il 5 ottobre 1985 come Figaro. Ora vi ritorna nei panni di Banco, ma il vero debutto nel ruolo è stato a Trieste nel 1977 (poi la Scala nel ‘79 Abbado-Strehler). Lo incontriamo a Vienna: l’aspetto, forte e sicuro, racconta del suo Friuli e dei grandi ruoli interpretati (Filippo II, Boris Gudonov, Banco, il Principe Gremin, Don Giovanni), ma non gli anni (66).

Dei suoi cavalli di battaglia qual è il suo preferito?

«Vent’anni fa avrei detto Figaro: il quarto atto, come cantante e attore, era pura felicità. Con gli anni mi sono poi affezionato a Filippo in “Don Carlo” e Boris Gudonov, ma forse il ruolo che amo di più è Don Chisciotte di Massenet. Altra opera che amo molto, cantata a Trieste, Lla Scala, in America e al Marinsky, è “Assassinio nella Cattedrale” di Pizzetti. Adoro il ruolo di Beckett, teatro puro».

In una vita come la sua che coincide con la carriera, i personaggi interpretati la influenzano?

«Direi che sono i personaggi a essere influenzati dalla mia vita. Ad esempio, il primo Filippo a Kassel nell’80 con regia di Giancarlo del Monaco era buono ma avevo 30 anni, fra quello di allora e oggi c’è un abisso. Sono parti che crescono assieme a un cantante, sia fisiologicamente che esistenzialmente. Noi cambiamo, e cambiamo il ruolo. Ero affascinato da Boris Christov, il suo Filippo era straordinario ma molto distante. Verdi mostra invece il suo lato umano e io ho privilegiato questo aspetto».

Lei ha lavorato con i direttori e registi più importanti del mondo: chi ha contato particolarmente?

«Innanzitutto Karajan, un grande privilegio aver lavorato con lui gli ultimi quattro anni della sua vita. Un uomo di statura superiore a tutti gli altri, mi ha fatto toccare dimensioni altrimenti irraggiungibili. E poi Ponnelle, che mi ha insegnato a essere cantante-attore, e ancora Faggioni, Strehler e Zeffirelli».

Quanto contano le sue radici friulane?

«Tantissimo. Ho trascorso tutta la giovinezza a Sacile, sono cresciuto con quei paesaggi nel cuore, le radici non si dimenticano. Ogni volta che torno, anche se non capita spesso, conosco a memoria il profilo dei luoghi, montagnetta per montagnetta. Ho avuto una giovinezza molto felice, con i genitori e i nonni. Ho studiato il Classico a Vittorio Veneto e credo sia stato decisivo per la mia formazione. Anche se ero un lazzarone, mi ha formato molto, per capire chi ero, le cose che amavo. Avevo la musica nel cuore. La nonna mi incoraggiò: andai a studiare a Mantova da Ettore Campogagliani (dove sono passati tutti i grandi incluso Pavarotti)».

Qualche ricordo dell’infanzia friulana e paralleli fra Vienna, dove oggi vive, e Trieste?

«Migliaia di ricordi da bambino. A cinque anni giocavo sempre nella villa di un bisnonno. Amava la lirica e mi insegnava arie da tenore. Tutte le estati dell’infanzia le ho passate lì. A Trieste sono molto legato perché è al Verdi che ho debuttato, dove ho fatto i primi passi. È un punto fermo della mia vita. Ricordo il direttore artistico Raffaello de Banfield. Il rapporto fra Austria e Friuli Venezia Giulia è sempre stato molto amichevole e bello»

Il modo di fare regia oggi è molto cambiato, l’interpretazione fa premio sulla fedeltà all’originale.

«Io ho avuto la fortuna di formarmi con registi come Chereau, Ponnelle, Faggioni, Strehler, de Tomasi, o Chazalettes. Questi grandi non ci sono più. Se dovessi nascere oggi sarei nelle peste. Noi cantanti siamo dei grandi professionisti costantemente nelle mani di dilettanti, una depressione mortale».

Qual è la percezione dell’Italia e come è cambiata nel tempo?

«È cambiata male, chiaro che resta l’italianità che ognuno di noi si porta dentroo. Quello che l’Italia ha dato al mondo è unico. Ma dal dopoguerra in poi la classe politica che abbiamo creato ha distrutto tutto. In primavera è morta mia madre e non ho più ragione di tornare in Italia».

Dopo Vienna, Furlanetto sarà al Festival di Salisburgo nel 2017, dove canterà in “Lady Macbeth” di Mzensk di Sciostakovic diretta di Mariss Jansonss.

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