Gentile: «Pativo se in campo mi chiamavano Gheddafi»

Il calciatore sarà ospite a Trieste di L.ink - Premio Luchetta Incontra sabato 23 aprile con il suo libro edito da Rizzoli: «Non ero rude, sono stato espulso una volta sola»
Di Guido Barella
Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso nella capitale egiziana, in una foto tratta dal suo profilo Facebook. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++
Giulio Regeni, il ricercatore friulano torturato e ucciso nella capitale egiziana, in una foto tratta dal suo profilo Facebook. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA+++

Un’idea nata a tavola, conversando con un altro italiano come lui nato e cresciuto nella Libia degli anni Cinquanta e con un giornalista, firma storica della Gazzetta dello Sport. Ed ecco “E sono stato Gentile”, il libro uscito in questi giorni per Rizzoli, che Claudio Gentile ha scritto assieme a quel giornalista, Alberto Cerruti, e che sarà presentato sabato 23 aprile nell’ambito della rassegna “L.ink - Premio Luchetta Incontra”. Per raccontare la sua Libia (da dove la sua famiglia fuggì quando lui aveva otto anni, nel 1961) e il suo calcio, un’avventura culminata con il Mondiale vinto in Spagna del 1982 ma fatta anche di tanti successi con la maglia della Juventus vestita tra il ’73 e il 1984.

Gentile, sono passati 55 anni da quando lasciò la Libia, ma Tripoli è nel suo cuore.

«I miei genitori ci hanno vissuto per 35 anni, mi hanno trasmesso il grande amore per quella terra che prima li aveva accolti e poi cacciati. E oggi, quando nei telegiornali passano i servizi su questo Paese dilaniato dalle bombe e vedo quanto soffre mia mamma, mi prende un magone... Inoltre, ben pochi in Italia conoscono la storia di quegli italiani arrivati in Libia ai tempi dell’Impero e poi espulsi da Gheddafi dall’oggi al domani dopo aver fatto la fortuna della Libia. E questo libro è un’occasione per fare giustizia».

E dire che poi lei, sui campi di calcio, veniva chiamato Gheddafi...

«Mandare giù quel boccone era un rospo amarissimo, tutta la mia famiglia aveva sofferto moltissimo a causa sua. Ma non potevo dire niente, Gheddafi era pure azionista della Fiat e io giocavo nella Juve!»

Ma veniamo al calcio, al suo calcio. La sua carriera si è intrecciata con tre personaggi molto legati al Friuli Venezia Giulia: Bearzot, Zoff e Zico, che giocò nell’Udinese. Iniziamo con il ct di Ajello.

«Bearzot è stato una personalità mai sufficientemente riconosciuta. Un uomo tutto d’un pezzo al quale mi sono sempre ispirato anche quando ho scelto di fare l’allenatore».

Zoff, il suo capitano, da Mariano.

«Tanta personalità e tantissima umiltà. Un esempio per noi che eravamo più giovani. Io, Tardelli, Cabrini...»

Zico, suo fiero avversario nella mitica partita di Barcellona al Mondiale 1982.

«Io ho marcato sia lui che Maradona, ma che differenza tra i due! L’argentino era per me più temibile perché era un grande solista. Zico invece era un gran signore, un campione in campo (dove giocava per la squadra) e fuori: dopo quella partita commentò pubblicamente che in campo io, marcandolo, avevo solo svolto il compito assegnatomi. Fu molto corretto. Maradona invece non perdeva occasione per lamentarsi di me. A proposito: a Zico chiesi anche la famosa maglietta strappata di quella partita, e lui tornò nello spogliatoio per prendermela!».

Quanto le è pesata questa nomea di giocatore, diciamo così, rude?

«Le rispondo così: lo sa che io sono stato espulso una volta sola in tutta la mia carriera, una semifinale di Coppa, ai supplemtari contro il Bruges e per un fallo di mano?».

Dica la verità: le piace il calcio di oggi?

«Mi scoraggio molto quando vedo una Juve prendere due gol come quelli di Monaco con il Bayern in cui i difensori non erano piazzati male, peggio...».

Lei ha allenato la Under azzurra. Quando la rivedremo in panchina?

«Ricevo tante telefonate, tante proposte. Ma solo dall’estero. E io vorrei tanto, invece, allenare in Italia. Veda: il grande Carletto Mazzone diceva che ci sono gli allenatori-allenatori e gli allenatori-accompagnatori. Io, che sono della scuola di Bearzot, mi considero un allenatore-allenatore, ma quanti ce ne sono come me oggi in Italia? E quanti sono invece gli allenatori-accompagnatori?».

A proposito di panchine. Il ct Conte lascia la Nazionale: dice che gli manca il lavoro quotidiano in campo...

«Ma perché, non lo sapeva che sarebbe stato così quando ha accettato l’incarico? Lo scopre solo adesso? Le dico di più: a questo punto sarebbe stato meglio se all’Europeo la Nazionale andava già con il nuovo ct».

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